PER DIFENDERCI dai foreign fighters e dai combattenti di ritorno di varia estrazione, cominciamo a guardarci dal fuoco amico. Quello che mentre spari agli avversari ti colpisce alle spalle. Nella diffusa lotta al terrorismo – che, fra le altre cose, costringe a mettere in campo 700 agenti per la prima della Scala neanche si trattasse di una partita con gli ultras in tribuna –, riflettiamo su possibili leggi eccezionali e poi con quelle in vigore agevoliamo i terroristi. Suicidio assistito? Autogol? Fate voi. Per individuare il simpatico iracheno arrestato a Bari come tour operator di jihadisti fatti passare per migranti (altro concetto tabù), non ci voleva un fine lavoro da agenti segreti: il buontempone l’avevamo in casa, l’abbiamo condannato per terrorismo internazionale, scarcerato, mandato al Cie, liberato di nuovo e poi accolto come normale cittadino a Bari. Dove ha ripreso serenamente i contatti con la cellula degli amiconi dell’Isis.
I VARI Rashid, Jalal, Khaled, con i quali si è rimesso in affari per far entrare attraverso la rotta dei Balcani altri islamici pronti a imbracciare il mitra e ad allacciare le cinture di sicurezza con bombe incorporate. Mentre discutiamo se mandare gli «scarponi sul terreno» in Libia o i Tornado a bombardare la Siria, in casa nostra siamo un colabrodo. Si entra e si esce (dal carcere e dalle fucine mediorientali di bombaroli) con facilità.
IL MINISTRO Angelino Alfano si affanna a comunicare espulsioni rapide, dopo che in un passato recente era più veloce fare un rogito che rimandare a casa un potenziale terrorista. E ancora contro il Califfato mettiamo in campo servizi segreti, addestratori paracadutisti nel Kurdistan iracheno, plotoni di analisti, le navi da guerra che nel Mediterraneo sono a caccia di schiavisti. Poi scopriamo che un Majid Muhamad qualsiasi, dopo una condanna a 10 anni per terrorismo (scontata), armato di carta da bollo presenta un ricorso contro l’espulsione in Tribunale e resta in Italia per riprendere il lavoro di soldato di Allah. Mentre discutiamo di alleanze nella lotta al Califfato, bombe sì bombe no, ci facciamo del male da soli. Abbiamo in casa reclutatori della Jihad e li lasciamo fare per poi riarrestarli di nuovo fra rischi e sforzi supplementari con organismi dello Stato che vanno in direzioni opposte.
LA LOTTA al terrorismo non si fa così. Prima di parlare di strategia internazionale bisogna ricominciare da capo e riannodare il filo del buonsenso e degli obiettivi da perseguire. Se siamo in guerra gli apparati di sicurezza devono marciare uniti e con capacità di dialogo, agire con rigidità verso la stessa direzione. Gli Imam che predicano la Guerra santa e quelli che studiano da terrorista devono stare in carcere o essere espulsi. Inoltre il caso di Muhamad dimostra un’altra verità che il vento del politicamente corretto evita: nell’immigrazione fuori controllo si nascondono anche i guerriglieri che stazionano in Italia o si spargono in Europa. E magari imbracciano il kalashnikov a Parigi.
Beppe Boni