Di Lorenzo Bianchi

A Taiwan il candidato più ostile alla Cina ha vinto le elezioni, ma ha perso la maggioranza in Parlamento. Lai Ching – te,  detto William, 64 anni, il 20 maggio sarà nominato presidente. Secondo la commissione elettorale centrale il suo partito, il Dpp, ha ottenuto il 40,1 per cento dei suffragi, contro il 33,5 per cento di Ho Yu – ih, 66 anni, ex capo della polizia, il leader dei nazionalisti del Kuomintang, favorevole ad un riavvicinamento a Pechino. Il terzo incomodo Ko Wen – jeh, 64 anni, ex sindaco di Taipei, ha raggranellato solo 8 seggi contro i 51 del partito di Lai (ne aveva 62) e i 52 del Kuomintang. Due sono andati a candidati indipendenti. Lai ha perso la maggioranza assoluta in Parlamento. L’affluenza ai seggi è stata del 71,9 per cento, anche grazie al massiccio afflusso dei giovani ai seggi.

Nel suo primo discorso il vincitore ha salutato gli elettori con queste parole: “Tra la democrazia e l’autoritarismo abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia”. Vicepresidente del Partito Progressista Democratico (DPP), formazione politica di centrosinistra guidata dalla presidente uscente Tsai Ing-wen, un medico che vanta nel curriculum anche l’Universita’ di Harvard, è entrato in politica nei primi anni Ottanta quando Taiwan divenne una democrazia libera e ha abbandonato la professione. E’ stato sindaco della citta’ di Tainan, nel sud-ovest del Paese, e primo ministro dal 2017 al 2019. E’un ultra progressista del partito che ha sempre spinto per la maggiore autonomia di Taiwan dalla Cina. Martedi’ scorso, in un suo intervento, aveva detto di essere pronto a rilanciare il dialogo con la Cina, dopo quasi otto anni di rifiuto totale di Pechino di comunicare con i leader dell’isola autonoma che considera un proprio territorio. Ma Lai ha anche fatto sapere che continuera’ la politica dell’attuale amministrazione, volta a mantenere l’indipendenza di fatto di Taiwan, nonostante le minacce del Partito comunista cinese di annetterla con mezzi politici, militari o economici.

Un pericoloso indipendentista”. Così Pechino considera Lai Ching-te, l’uomo che sta per diventare il leader del Paese. Definizioni confermate proprio in questi giorni da Chen Binhua, il portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino, che aveva consigliato: “Non votate Lai, e’ un istigatore di conflitti tra le due sponde”.

Nella tornata di elezioni locali del 27 novembre 2022 il partito nazionalista Kuomintang, incline a un accordo con Pechino e contrario alle pulsioni indipendentiste, aveva conquistato 13 delle 22 città e contee nelle quali si è votato. E’ stato un pessimo segnale per la presidente Tsai Ing-wen che ha vinto solo in cinque centri urbani. Anche un referendum sull’abbassamento dell’età di voto da 20 a 18 anni, fortemente voluto proprio da Tsai, è stato respinto. La presidente aveva alzato i toni della campagna elettorale sostenendo che il voto rappresentava un pronunciamento popolare sul suo operato e che era un test per verificare la tenuta rispetto alle ambizioni di riconquista della Cina. Oltre 19 milioni di elettori, pari all’82 per cento della popolazione, sono andati ai seggi. A Taipei è stato eletto sindaco Chiang Wan-an, 43 anni, avvocato e pronipote del fondatore della Repubblica di Cina (Taiwan) Chiang Kai-shek che fu “generalissimo” prima nella guerra contro i giapponesi e poi nel conflitto civile contro i comunisti di Mao Tse Tung. Sconfitto, fu costretto a riparare nell’isola alla quale impose una dittatura di fatto fino al 1975, l’anno della sua morte. Il Dpp ha ammesso la disfatta. Tsai Ing-wen si è dimessa dalla guida del partito, ma rimarrà alla testa del governo dell’isola. Per l’esecutivo si voterà infatti all’inizio del 2024. Il Kuomintang si e’ affermato anche in altri importanti centri di Taiwan, tra cui New Taipei, Taichung e Taoyuan, mentre il Dpp ha vinto a Kaohsiung, una citta’ portuale nel sud-ovest dell’isola, a Tainan, e in altri centri minori. Le tensioni tra Taipei e Pechino hanno raggiunto il livello più alto in agosto, dopo la visita della speaker della Camera Usa Nancy Pelosi, alla quale Pechino ha risposto con massicce esercitazioni militari.

Il primo luglio 2021 la festa per i cento anni del Partito Comunista cinese era stata una minaccia al mondo. “ Non permetteremo  a nessuno di bullizzarci” aveva tuonato Xi Jinping (nella foto) parlando nella piazza Tien An Men.  Poco prima negli Usa il “James Martin Center for Nonproliferation Studies” , basandosi su immagini satellitari, aveva lanciato l’allarme sui silos per missili intercontinentali (almeno cento) scoperti nella provincia di Gansu, vicina ai confini con la Mongolia. Ora si apprende che almeno un missile ipersonico con capacità nucleare è stato lanciato e mai notificato in agosto con il razzo “lunga Marcia 78”. Fa parte della serie “Hgv”, veicoli plananti capaci di raggiungere una velocità pari a 5 volte quella del suono e manovrabili, una caratteristica che li rende più difficili da tracciare e, di conseguenza, un incubo per gli Usa acuito dal fatto che possono sorvolare il Polo sud, mentre i sistemi di difesa di Washington sono concentrati sulle rotte artiche. Il veicolo planante ipersonico cinese avrebbe fatto il giro del pianeta su un’orbita bassa. Il Pentagono ha definito Pechino “la nostra sfida numero uno”.

Dal primo ottobre 2021 per quattro giorni 150 aerei di Pechino Xian H-6, in grado di sganciare anche bombe atomiche, hanno sorvolato Taiwan. Celebrando i 110 anni della rivoluzione Xinhai, che rovesciò la dinastia Qing esautorando il sovrano bambino cinese Aisin Gioro Puyi, Xi Jinping ha recitato l’ennesimo de profundis per l’isola. Nella grande sala del Popolo il 9 ottobre il presidente cinese è stato categorico e tagliente: “Il suo separatismo è il più grande ostacolo al raggiungimento della riunificazione della madrepatria e il più grave pericolo per il ringiovanimento della nazione. Il compito storico della completa riunificazione deve essere assolto e lo sarà sicuramente. Chiunque voglia tradire e separare il Paese sarà giudicato dalla storia e non farà una buona fine”.

Mosca è pronta a riconoscere  un’eventuale annessione. Il ministro degli esteri Serghei Lavrov non nutre il minimo dubbio. “Proprio come la stragrande maggioranza degli altri Paesi – ha detto – la Russia vede Taiwan come parte della Repubblica popolare cinese”. La presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, eletta nel 2016, subito dopo il discorso di Xi Jinping ha ribadito la richiesta di un “dialogo da pari a pari” e ha promesso che farà del suo meglio per impedire che “lo status quo venga modificato unilateralmente”.

Il primo luglio 2021 il presidente cinese ha rivendicato di aver ristabilito l’ordine a Hong Kong (la governatrice della megalopoli Carie Lam era a Tienanmen) e ha ripetuto che Taiwan tornerà sotto il controllo di Pechino. Dalla piazza si è alzata un’ovazione. Ricordare il massacro di Tienanmen a Hong Kong ora è proibito come in tutta la Cina. Di notte, quando l’ateneo di Hong Kong era deserto, è stata smontata la statua che ricordava la cruenta repressione della manifestazione studentesca del 4 giugno 1989 a Pechino. La stele è stata impacchettata e caricata su camion prima dell’alba. Il “pilastro della vergogna è sparito”. Era alto 8 metri, realizzato in rame, pesava due tonnellate, 50 corpi erano ammassati uno sull’altro, i visi angosciati e stravolti, un regalo dell’artista danese Jens Galschiot che risaliva la 1997, l’anno nel quale l’ex colonia britannica è stata restituita a Pechino. L’ateneo si nasconde dietro una consulenza legale esterna e “una valutazione del rischio nel miglior interesse dell’Università”. Subito dopo lo stesso passo è stato deciso dall’università cinese di Hong Kong che ha fatto rimuovere la “Dea della democrazia”, una copia alta sei metri della statua eretta nella piazza Tienanmen prima del massacro del 4 giugno 1989, opera dell’artista cinese, naturalizzato americano, Chen Weiming. La stessa sorte è toccata alla stele commemorativa, un altro manufatto di Weiming, all’università Lingnan. La vigilia del giorno di Natale è stata spostata anche la “Bontà della democrazia”. L’Unione degli studenti di Hong Kong della City University sostiene che questo trasferimento è stato deciso per evitare che sia danneggiata.

Il 19 dicembre 2021 Hong Kong ha votato per il suo parlamentino, il Consiglio legislativo, applicando per la prima volta la legge nazionale cinese sulla sicurezza introdotta nell’ex colonia di sua Maestà britannica nel luglio del 2020. Le nuove norme prevedono che solo 20 dei 90 seggi in palio siano assegnati con il voto popolare. Altri 40 sono attribuiti dalla commissione elettorale di  1448 componenti tutti legati al Partito Comunista Cinese. Trenta sono designati dalle associazioni degli affari e del commercio, solitamente molto sensibili agli input che arrivano dalla Cina. Gli abitanti di Hong Kong si sono rifugiati nell’astensionismo. Solo il 30 per cento dei 4,5 milioni di abitanti si è preso il disturbo di andare ai seggi. Nel 2016 la percentuale dei votanti era stata del 58 per cento. Dei 153 candidati ammessi dalla Commissione elettorale solo dieci hanno avuto il coraggio di dichiararsi simpatizzanti dell’opposizione, pur giurando fedeltà alla Cina e al suo sistema politico.   La commissione elettorale aveva ammesso infatti alla consultazione solo i candidati dotati di solide credenziali patriottiche, cinesi naturalmente. Dieci esponenti politici sono stati arrestati nei giorni che hanno preceduto il voto per aver incitato a disertare le urne.

A Pechino nel mese di giugno del 2020 si è riunita la tredicesima sessione dell’Assemblea Nazionale. Tutti i 162 componenti del Comitato Permanente hanno votato l’estensione all’ex colonia britannica della legge cinese sulla sicurezza. Nella tarda serata del 30 giugno il testo è stato pubblicato dalla Gazzetta ufficiale. La nuova norma imposta dalla Cina punisce, la secessione, il terrorismo, la sovversione e la collusione con forze straniere. La sezione III dell’articolo 20 prevede pene da 3 anni fino all’ergastolo. Dal primo luglio del 1997, l’anno del passaggio alla Cina, la metropoli aveva mantenuto un regime di autonomia dei giudici e delle forze dell’ordine e la Basic Law, la Legge Fondamentale.  Pechino ha imposto il suo dominio. L’articolo 48 sancisce l’apertura sull’isola di un’agenzia di intelligence il cui personale non sarà sottoposto alla legge di Hong Kong. La guida Zheng Yanxiong, 56 anni,  un falco.

All’interno del Partito comunista cinese, hanno rivelato i file di “Wikileaks”, comandano i cosiddetti “principini” che hanno affibbiato agli avversari interni l’etichetta di “Tuanpai”, ossia “bottegai”. Il capofila  dei “bottegai”,  nati da una costola della gioventù comunista, è Li Keqiang. Citando il quotidiano “South China Morning Post” di Hong Kong, “Caixin” e “Global Times”, Il sito “China Files” ricorda che il premier, durante una visita nella provincia nordorientale dello Shandong, ha indicato come esempio la città di Chengdu, perché ha creato 100 mila posti di lavoro autorizzando 36 mila bancarelle.

Questo reticolo di economia minuta è il Ditan jingji. La vendita in strada è stata la prima esperienza di molti imprenditori di primo piano. Il più noto è il fondatore della fabbrica di computer Lenovo. Pochi giorni prima di una visita a Wuhan, epicentro della pandemia del Covid-19, il premier cinese aveva denunciato che 600 milioni di suoi concittadini sbarcano il lunario con meno di 140 dollari al mese. Era una dichiarazione perfettamente in linea con il retroterra sociale dei “bottegai” che vogliono dar voce ai gruppi sociali più deboli, ai migranti interni, ai contadini, alla popolazione urbana povera, agli abitanti delle zone meno sviluppate del Paese. Da “Weibo”, il sito di microblogging cinese più cliccato, è sparito subito l’hashtag  “Ditan Jingji”, bandiera  dei “bottegai in rete”. Xi Jinping non tollera devianze politiche.

L’ultima vittima del pugno di ferro del presidente è Jack Ma, 56 anni, il finanziere che si era gloriato di essere amico del presidente fin dal 2002. All’epoca Xi Jinping era il segretario del partito nello Zhejiang. A Hangzhou, il capoluogo della provincia, è collocato il quartier generale di “Alibaba”, il colosso del commercio in rete creato dal nulla da Ma, un ex insegnante di inglese. A 36 ore dall’esordio sui mercati azionari di Shanghai e di Hong Kong il partito ha bloccato lo sbarco in borsa di “Ant”, il braccio finanziario di “Alibaba”, un sistema di pagamento telefonico diventato un impero da 300 miliardi di dollari. Secondo gli analisti l’operazione valeva 37 miliardi di dollari. Fonti pechinesi hanno soffiato al “Wall Street Journal”, che Jack Ma, al secolo Ma Yun,  ha subito lo stop perché ha criticato il sistema finanziario del suo Paese. Il 24 ottobre dell’anno scorso aveva accusato il partito di obbligare gli istituti di credito a funzionare “come banchi dei pegni”. Non contento, aveva concluso: “La buona innovazione non ha paura delle regole, ha caso mai paura delle regole antiquate, non dovremmo usare metodi da stazione ferroviaria per far funzionare un aeroporto”. Il finanziere è finito nel mirino del grande capo. Il vicegovernatore della banca centrale Chen Yulu, ha costretto la Ant a costituire un gruppo di lavoro per “rettificare” le sue attività.

Il presidente Xi Jinping considera i colossi della tecnologia una minaccia alla stabilità politica e finanziaria. Dopo diverse settimane di oscuramento mediatico il proprietario di Alibaba è riapparso in un video girato per la sua fondazione. Anni fa teorizzava che “se a 35 anni siete ancora poveri, ve lo meritate”. Il 19 gennaio rivolgendosi a 100 insegnanti delle zone rurali ha indossato le vesti dell’agnellino. “Ci incontreremo di nuovo – ha esordito – quando sarà finita la pandemia. In questi giorni ho imparato e riflettuto insieme ai miei colleghi. Adesso siamo ancora più determinati a dedicarci all’educazione e al benessere pubblico. La Cina è entrata in una nuova fase di sviluppo e si sta muovendo verso una prosperità comune”.  Secondo il “Wall Street Journal”, il governo cinese gli ha chiesto di uscire dal settore dei media. Alibaba è proprietaria del giornale più importante di Hong Kong, il “South China Morning Post”, e ha partecipazioni in “Weibo”, il Twitter cinese, e nella piattaforma di video “Bilibili”.

“La Cina sarà sicuramente riunificata”, aveva giurato il presidente cinese Xi Jinping nel suo messaggio di capodanno. “Tutti i cinesi su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan – aveva ribadito – dovrebbero essere legati da un obiettivo comune e condividere la gloria del rinnovamento della nazione cinese”, senza precisare, come sempre, l’orizzonte temporale della riunificazione.  Per il presidente degli Stati Uniti Joe Biden potrebbe aprirsi un terzo fronte di guerra dopo quello in Ucraina e in Medio Oriente. Nel summit del disgelo di metà novembre a San Francisco la questione di Taiwan era rimasta un nodo irrisolto.