Di Lorenzo Bianchi 

Erdogan ha eliminato il suo principale avversario nelle elezioni del 2028. Sono scattate le manette ai polsi di Ekrem Imamoglu, il sindaco di Istanbul. Il primo cittadino è stato raggiunto all’alba del 19 marzo da un centinaio di agenti che si sono recati nella sua abitazione per arrestarlo, pochi giorni prima delle primarie del suo partito nelle quali avrebbe annunciato la sua decisione di candidarsi. Imamoglu, esponente del Chp, il maggior partito di opposizione, è stato accusato di “favoreggiamento del terrorismo” ossia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk, e di “corruzione”. Nelle stesse ore sono finite in carcere anche altre 84 persone ritenute a lui vicine, tra le quali politici di altre municipalità di Istanbul e giornalisti. L’arresto di Imamoglu è stato accompagnato da rallentamenti e blocchi dei principali social network, come X, Instagram, Facebook e YouTube. La prefettura di Istanbul ha vietato per quattro giorni manifestazioni politiche. Nonostante il divieto, gli studenti dell’Università hanno marciato a favore del sindaco, scontrandosi anche con le forze dell’ordine, e migliaia di sostenitori di Imamoglu hanno protestato a Istanbul, come anche in molte altre città turche, tra cui Ankara e Smirne.

Nella città sul Bosforo una folla di migliaia di persone si è radunata davanti alla sede del comune, sfidando i divieti imposti dalla prefettura. “La nostra nazione darà la risposta necessaria alle bugie, alle cospirazioni, alle trappole, a coloro che violano i diritti delle persone e rubano la volontà del popolo”, ha dichiarato Imamoglu poco prima dell’arresto. La reazione dei mercati ha portato la Borsa di Istanbul a interrompere le contrattazioni dopo che l’indice Bist ha segnato un calo del 6,87% in apertura, e ha chiuso a -8,7, mentre la lira turca ha subito una delle maggiori perdite degli ultimi mesi, segnando nuovi record negativi rispetto all’euro, cambiato a 41,20 lire, e al dollaro, che quota a 37,87 lire. Già nelle scorse settimane Imamoglu era stato messo sotto inchiesta per alcune sue dichiarazioni critiche nei confronti del governo e il giorno prima dell’arresto l’Università di Istanbul aveva annullato la sua laurea, un titolo necessario per candidarsi alla presidenza della Repubblica. Imamoglu è diventato sindaco di Istanbul nel 2019, dopo avere battuto il candidato del partito Akp di Erdogan che governava la città da 15 anni. Da allora è diventato tra le figure più importanti dell’opposizione e dopo avere vinto nuovamente le amministrative anche l’anno scorso è ritenuto il principale rivale di Erdogan, che per la Costituzione non potrebbe candidarsi per un nuovo mandato nel 2028.

Il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk ha definito “triste” e “orribile” la situazione in Turchia commentando l’arresto del sindaco di Istanbul. “Negli ultimi 10 anni non abbiamo avuto una democrazia pienamente completa in Turchia. Perché non c’è stata libertà di espressione nel Paese. Abbiamo avuto soltanto una “democrazia elettiva”. Abbiamo potuto solo votare alle elezioni per chi volevamo. Oggi anche la democrazia elettiva, il diritto di voto per il tuo candidato, è finita. Molto triste per il mio Paese, persino orribile!”, ha affermato Pamuk in un messaggio inviato all’ANSA.

Il 27 febbraio Abdullah Ocalan aveva  rinunciato alla guerriglia. “Tutti i gruppi – aveva esortato – devono abbandonare le armi e il Pkk deve sciogliersi”. Per la prima volta il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha chiesto la dissoluzione del gruppo armato da lui stesso fondato nel 1978 e da 40 anni coinvolto in un conflitto con l’esercito turco che ha portato alla morte di oltre 40mila persone. Ocalan ha affermato che “non c’è alternativa alla democrazia” per ottenere “rispetto per le identità, libera espressione e auto organizzazione democratica di ogni segmento della società”». I curdi in Turchia sono circa 15 milioni. In un’affollata conferenza stampa a Istanbul, il suo messaggio è stato letto dai politici del partito filo-curdo Dem, la terza forza più del Parlamento turco, che lo hanno incontrato nel carcere dell’isola di Imrali, nel Mare di Marmara, a sud di Istanbul. L’ il leader curdo dal 1999 sconta una condanna all’ergastolo in regime di isolamento. Fu arrestato in Kenya dopo che aveva cercato asilo politico in Russia, in Italia e in Grecia. Nei mesi scorsi Ocalan ha avuto vari colloqui con i deputati del Dem, dopo non aver ricevuto visite per 10 anni, ovvero da quando nel 2015 fallì una tregua, dichiarata dallo stesso leader curdo, tra il Pkk e l’esercito di Ankara che era iniziata nel 2013.

In ottobre Devlet Bahceli, il leader della destra nazionalista (Mhp) , alleato di lungo corso del presidente Recep Tayyp Erdogan, e tradizionalmente lontano dalla causa curda, aveva invitato Ocalan a sciogliere il Pkk in cambio di concessioni sul suo regime carcerario. L’iniziativa era stata sostenuta da varie forze politiche, tra le quali il Dem, e dallo stesso Erdogan, che aveva parlato di un’opportunità “storica”. A poche settimane dall’appello per un nuovo processo di pace lanciato dal Mhp, a fine ottobre, il Pkk aveva rivendicato un attentato in provincia di Ankara che ha provocato la morte di 5 persone e 22 feriti. I colloqui in carcere con il leader curdo non si sono interrotti sono andati comunque avanti e hanno portato all’appello di Ocalan. Molti analisti sostengono che il presidente turco stia cercando in questo momento il sostegno in Parlamento dei filo-curdi Dem, che sono all’opposizione, per avere i due terzi dei parlamentari che sono necessari per cambiare la Costituzione in modo tale da permettergli di correre per un nuovo mandato alle elezioni in calendario per il 2028.

Si capirà soltanto in futuro se l’appello di Ocalan verrà raccolto dai quadri del Pkk nel quartier generale di Qandil, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, che non hanno mai messo in discussione la figura del leader storico; non sono ancora chiare nemmeno le concessioni che Ankara potrà offrire in caso di scioglimento del gruppo curdo. Secondo indiscrezioni sulla stampa turca, alcune riguarderebbero garanzie che i militanti del Pkk possano tornare a vivere da civili senza problemi e che il partito Dem possa governare le province dove i suoi sindaci sono stati eletti e poi regolarmente rimossi dal governo perché accusati di terrorismo.

Il 16 maggio 2024 il leader curdo Selahattin Demirtas, 51 anni, un avvocato di Dyarbakir che ha fondato il Partito democratico dei Popoli (in sigla Hdp), era stato condannato da un tribunale di Ankara a 42 anni anni di carcere per 47 diversi capi di imputazione. L’accusa più grave è quella di aver attentato all’unità dello stato nel 2014, durante le manifestazioni di protesta per il mancato intervento dello stato turco a Kobane, una città siriana vicina al confine con la Turchia assediata dal sedicente Califfato islamico. Negli scontri morirono 37 persone. In carcere dal 2016, Demirtas è già stato condannato nel 2018 a quattro anni e otto mesi di carcere per “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”. Alla copresidente dell’Hdp Figen Yüksekdağ sono stati comminati 30 anni e tre mesi di reclusione. A dieci anni è stato condannato il sindaco della città di Mardin, Ahmet Turk, anche lui dell’Hdp, per “appartenenza a un’organizzazione terroristica armata”. Le proteste di dieci anni fa coinvolsero diverse città turche, con 197 scuole e 269 edifici pubblici dati alle fiamme. Il processo si è concluso dopo 83 udienze. Gli avvocati difensori hanno intonato in curdo “Lunga vita alla resistenza  dello Hdp” e “Lunga vita alla resistenza di Kobane” mentre veniva letto il dispositivo della sentenza. Demirtas non era in aula. “Non permetterò di leggermi il verdetto in faccia”, aveva annunciato. Il procedimento giudiziario ha portato a una condanna di Ankara da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu).

Come nel 2019 il primo aprile l’opposizione aveva vinto le elezioni amministrative a Istanbul, ad Ankara e in altre 4 grandi città turche. Per il presidente Recep Tayyp Erdoğan è stata una disfatta su tutta la linea, nonostante i toni meno divisivi del solito che aveva adottato prima di questa consultazione. Il Partito Repubblicano dei Popoli (in sigla Chp), laico e kemalista, ha conquistato 36 città su 81. Fra queste 14 metropoli, come Ankara e Smirne, e Istanbul, la megalopoli di 16 milioni di abitanti. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo (in sigla Akp) di Erdoğan ne ha conquistate solo 12. Con quasi il 75% delle schede scrutinate Imamoglu, riferisce la tv turca “Ntv“, è in testa a Istanbul con il 50,4% dei voti mentre Kurum si attesta a 40,8%. A Ankara, con il 51% dei voti scrutinati, Yavas è al 58,9% contro il 33,14% per Altinok. Il Chp è avanzato anche dove era molto forte l’Akp, ad esempio a Bursa, Bahkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale and Afyonkarahisar. A Istanbul il sindaco uscente Ekrem İmamoğlu ha superato il 50 per cento dei suffragi e ha inflitto un distacco di dieci punti a Murat Kurum, lo sfidante schierato dal partito del capo dello stato. Ad Ankara il primo cittadino uscente del Chp Mansur Yavas ha raccolto circa il 58 per cento dei voti surclassando Turgut Altinok, l’esponente dell’Akp che si è   fermato al 34 per cento. A Smirne, da sempre una roccaforte laica, Cemil Tugay del Chp ha stracciato Hamza Dağ dell’AKP. I kemalisti hanno consolidato il loro seguito a Antalya, a Adana e a Mersin, sulla costa del Mediterraneo. Il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia (in sigla Dem) ha messo il cappello su Diyarbakır, Mardin e Van. I nazionalisti dello Mhp, stretti alleati di di Erdoğan, si sono affermati in otto città e il Partito Buono in appena una. Al Partito del Nuovo Welfare ne sono toccate due, Sanliurfa e Yozgat , con un consenso pari al 5 per cento dell’elettorato.

“Abbiamo vinto noi e da domani la Turchia sara’ un Paese nuovo”. Sono le parole pronunciate da un trionfante Ekrem Imamoglu, il sindaco del partito di opposizione Chp che nel 2019 dopo 25 anni ha strappato Istanbul all’Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan.

“La nostra gente ci ha dato ancora fiducia, sarà il secolo della Turchia” aveva esultato Recep Tayyip Erdoğan, 69 anni, dopo avere vinto di nuovo le elezioni presidenziali il 28 maggio 2023. Parlava dal pulman che portava lui e la moglie Emine alla sede centrale del suo partito, l’Akp, a Istanbul. La folla dei fan era radunata davanti a un maxi schermo montato sulla strada che trasmetteva lo spoglio dei voti ad Ankara. Non era stata una vittoria travolgente come era sempre successo negli ultimi venti anni. Ahmet Yenel, capo della Commissione elettorale centrale, in sigla Ysk, aveva comunicato che al presidente era andato il 52,14 per cento dei voti, mentre il suo sfidante Kemal Kilicdaroglu, leader del Chp e dell’opposizione, si era fermato al 47,86 per cento. Erdoğan era stato primo ministro dal 2003 al 2014, anno nel quale era diventato capo dello stato dopo aver promosso una riforma in senso presidenziale delle istituzioni turche. I leader di Qatar, Ungheria, Azerbaijan, Somalia, Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita sono stati tra i primi capi di stato e di governo a congratularsi con il presidente eletto, ha riferito l’agenzia di stampa statale “Anadolu”. Gli osservatori dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e per lo Sviluppo Economico in Europa) hanno denunciato “pesanti irregolarità” nel voto e nella campagna elettorale.

In Parlamento la coalizione guidata dall’Akp, il partito del capo dello stato, aveva conquistato 326 seggi su 600 contro i 211 dell’opposizione.  Duecentosessantotto sono andati all’Akp, 51 al partito nazionalista Mhp e 5 al partito Refah. Nella coalizione di opposizione 167 sono del Chp e 44 dei nazionalisti di Iyi parti. Ha ottenuto 65 parlamentari e ha superato la soglia di sbarramento del 10% la coalizione di sinistra formata dai filo curdi di Hdp, che si sono presentati con il simbolo di Sinistra Verde e hanno conquistato l’8,75% dei consensi pari a 62 parlamentari. Altri 3 seggi sono andati al partito dei lavoratori, nato da una scissione dal partito comunista turco. (Nella foto una manifestazione a Istanbul).

Erdoğan si è trovato a fare i conti con un difficile rapporto con l’Occidente. La Nato non vede di buon occhio i suoi stretti rapporti con la Russia dalla quale importa il 44 per cento del gas che consuma. Mosca sta costruendo la centrale nucleare di Akkuyu, la prima del Paese. Gli Usa hanno escluso Ankara dalla fornitura dei moderni caccia F 35 dopo che il presidente turco ha deciso di acquistare i missili antiaerei russi S 400.

Il “Sultano” deve affrontare una situazione economica molto fragile. L’inflazione alla fine del 2022 aveva superato l’80% toccando i livelli più alti degli ultimi vent’anni. La lira turca ha fatto registrare nei giorni che hanno preceduto la sua rielezione un ennesimo record negativo rispetto al dollaro. Secondo i dati ufficiali le riserve estere nette della Banca centrale turca sono scese sotto lo zero per la prima volta dal 2002. Alla testa dell’Istituto di credito  statale si sono avvicendati 5 governatori negli ultimi otto anni. Il presidente turco ha varato una riforma per la quale è stato cancellato qualsiasi criterio di età per il pensionamento. Per averne diritto è sufficiente avere versato fra 20 e 25 anni di contributi. Il salario minimo è stato raddoppiato ed è arrivato a 425 euro.

Un’altra nuvola nera all’orizzonte è la questione dei migranti siriani ospitati dalla Turchia, quasi 4 milioni di persone arrivate dopo l’inizio del conflitto civile nel 2011. Erdogan ha promesso che 1 milione di rifugiati tornerà “volontariamente” in patria, ma il presidente siriano Bashar al-Assad, con il quale il presidente turco sta cercando da mesi una riconciliazione dopo avere rotto i rapporti oltre dieci anni fa, ha chiesto esplicitamente che le truppe di Ankara lascino il suo Paese. Il capo dello stato avrebbe catalizzato i voti degli elettori nazionalisti di destra che al primo turno delle elezioni avevano scelto Sinan Ogan. Nelle ultime due settimane anche Kemal Kilicdaroglu si è concesso una sbandata nella stessa direzione che con ogni probabilità gli è costata molti consensi nelle zone curde. Per la prima volta Erdoğan terrà il suo primo discorso del nuovo mandato dal nuovissimo palazzo presidenziale non dalla sede dello Akp.

Nella campagna elettorale L’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo, si era alleato con i nazionalisti del Mhp, di destra e conservatori. Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, economista, un curdo di religione alauita che ha rivendicato le sue origini, da 15 anni alla testa del Partito Popolare Repubblicano, in sigla Chp, kemalista e socialdemocratico, era il leader dell’”Alleanza della Nazione” . Al cartello elettorale hanno aderito il Partito della Felicità (Sp) conservatore islamista fondato nel 2001 da Necmettin Erbakan, il leader storico dell’islamismo politico in Turchia, il Partito Democratico (Dp), liberale di centro destra, il Partito della Patria (Pd) e il Partito Buono (Iyi) di Meral Aksener, entrambi di centro. Il Partito Democratico dei Popoli (Hdp) filocurdo e liberale, forte del 10 per cento dell’elettorato ha sostenuto la coalizione appoggiando i candidati del “Partito della Sinistra verde” Yeşil Sol. I curdi, 20 milioni di cittadini turchi, sono vittime di una repressione di antica data. Il deputato e copresidente dello Hdp Selahattin Demirtas è in carcerazione preventiva dal 2016. Per questa vicenda la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato la Turchia. “Il nostro più grande obiettivo è portare la Turchia verso giorni prosperi, pacifici e gioiosi”aveva promesso Kilicdaroglu. L’ “Alleanza della Nazione” era sostenuta anche da Ali Babacan, già ministro dell’economia del “Sultano”, e da Ahmet Davutoglu, l’ex premier del capo dello stato in carica.

La citazione irriverente di un proverbio circasso sui potenti ha portato in carcere il 22 gennaio 2022 una nota giornalista turca. Sedef Kabas, 52 anni, è stata condannata a 11 mesi di prigione. “C’è un proverbio molto famoso – aveva detto in diretta sul canale televisivo dell’opposizione “Tele 1” – che dice che la testa coronata diventa più saggia. Ma vediamo che non è vero. Il bue non diventa re entrando nel Palazzo, ma il Palazzo diventa una stalla. E’ stata arrestata per aver insultato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, un’imputazione che dal 2014 è stata contestata in oltre 160 mila casi sfociati in 12.881 condanne.