L’inferno te lo immagini di fuoco e di grida, ma quando l’ho visto io era fatto d’acqua, fango e silenzio. Io c’ero in Thailandia, dieci anni fa. Catapultato in meno di 24 ore dall’intimità di un Natale sotto l’albero all’orrore che aveva inondato l’altra parte del mondo. E molte immagini di quell’apocalisse da 230mila morti  (54 italiani) vivono con me da quel maledetto 2004. 

La prima, lo stadio di Kaolak. Quando mi torna in mente, a volte penso di ricordarmi solo un sogno angosciante o un brutto film. Devo riguardare le foto per crederci. Con tre colleghi eravamo saliti su un camion di soldati thailandesi diretti a nord di Phuket, in uno dei paradisi turistici più frequentati dagli stranieri, italiani in testa, Ricordo il Sarasin Bridge, il ponte che unisce Phuket alla terraferma. Oltre c’era, appunto, Kaolak. Oltrepassare quel ponte era come salire sulla barca di Caronte. “Volete vedere i corpi? Go, go”, facevano segno i poliziotti. E ti trovavi in uno stadio,  in mezzo a cataste di morti. Cataste. Morti neri, gonfiati dall’acqua, qualcuno con le mani protese verso il cielo come avesse voluto chiedere pietà nell’ultimo istante di coscienza.  Ma non c’era stata pietà per questa gente nel  golfo di Kaolak, l’Eden dei turisti.  E’ un golfo immenso, non c’è nessuna isola davanti, nessuna protezione, nessuna possibilità che l’onda potesse smaltire anche in parte la sua potenza. E’ arrivata a 500 all’ora, enorme, alta forse otto metri dopo aver risucchiato il mare per cinquanta, cento metri, tanto da scoprire quelle conchiglie enormi che hanno attratto frotte di curiosi condannandoli a morte certa quando in un attimo è arrivata quella massa d’acqua apocalittica. Mi basta chiudere gli occhi per rivedere tutto. Ci sono auto conficcate nelle case come assurde frecce anche a centinaia e centinaia di metri dal mare. Ci sono albeghi sventrati fino ai secondi piani come fossero stati di cartapesta. Ci sono palme secolari letteralmente sbriciolate e camioncini scaraventati sui tetti come proiettili. Non ci sono che macerie, solo macerie, nient’altro che macerie.

A Phuket Town avevano tirato su una tendopoli d’emergenza nel grande spiazzo del governatorato dell’isola. Tanta gente, tanti giovani. I thailandesi non volevano che quell’onda comparsa dal nulla portasse via, oltre ai loro sogni, anche le loro speranze. In 24 ore un esercito brulicante di volontari aveva messo in piedi un’incredibile campo  internazionale mettendo insieme non “interpreti”, ma tutti quelli che sapevano una parola in più in una lingua diversa dal thai, che non erano molti. C’era una fila interminabile di banchini, ognuno  sovrastato da un foglio bianco con una scritta a pennarello nero: Uk, Usa, Finlandia, Norvegia, Svezia, Svizzera, Francia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Nuova Zelanda, Malaysia, Canada, e via a perdita d’occhio come fosse la piccola Onu dei poveri e della tragedia…. Un colpo d’occhio impressionante,  migliaia di persone correvano da una parte all’altra della tendopoli. Chi trasportava carrelli di acqua e vivande, chi frigoriferi, chi pentole piene di riso bollente, chi vestiti. Vestiti, certo. Di ogni genere, magliette, pantaloni lunghi e corti, maglioni, camicie, mutande, calze, scarpe di tutte le misure. Sì, perché a centinaia erano arrivati lì con indosso solo il costume da bagno. Erano nudi, sconvolti, increduli. Niente passaporto, niente carte di credito: per un occidentale è quasi una crisi d’identità. Potersi infilare una Lacoste un po’ sgualcita e un paio di Bermuda era come ricominciare a respirare dopo una maledetta apnea. Qualcuno riusciva perfino a sorridere di fronte alla camicia che gli stava stretta, mentre nugoli di fanciulle offrivano bibite ghiacciate e gelati. Il popolo di Phuket che vestiva e rifocillava i danarosi villeggianti, chi l’avrebbe mai detto. 

Ricordo che al secondo piano della palazzina adibita a unità di crisi,  c’era un grande tavolone dove sedevano i rappresentanti ufficiali dei governi. Gli americani e gli inglesi avevano anche le bandierine, gli italiani neppure un computer portatile, tanto che la dottoressa Sabina Santarossa, capo del piccolo staff consolare paracadutato da Bangkok, aveva il suo daffare per cercare di tenere aggiornate le liste dei morti, dei dispersi, dei feriti, in un via vai di parenti e amici che portavano notizie confuse e contraddittorie. Ricordo i tabelloni con centinaia di foto di persone “missing”, c’erano anche i volti sorridenti di tanti bambini inglesi, svedesi, tedeschi, austriaci, italiani.
Una tragedia immane, e come in ogni tragedia, tante storie. C’erano i ragazzi elbani dati per morti e ritrovati sani e salvi. C’era Olinto Barletta, un imprenditore emigrato in Thailandia che girava con un tricolore sull’auto cercando italiani da aiutare. C’erano le ragazze dei night club che pochi giorni dopo aver pianto un loro congiunto tornavano a lavorare a Patong Beach in una Phuket che voleva disperatamente tornare a vivere. Una, Supatraa, mi raccontò del suo ragazzo trascinato via dalla grande onda e dei progetti di una vita insieme svaniti in un attimo d’assurdità. 

E la notte, ogni notte, passando lungo le spiagge, si vedevano le pire di fuoco innalzate per bruciare i corpi. I cavaderi erano troppi e l’allarme colera era già alto. C’erano quelle colonne altissime di fiamme e fumo ovunque, come in un campo di battaglia dell’antichità. Ma la battaglia contro lo Tsunami, nessuno aveva potuto combatterla.