Qualcuno ha definito il PCC, il partito comunista cinese, la più grande società segreta del mondo. Non male come definizione, per un partito con 83 milioni di iscritti (neppure una quantità impressionante su un  miliardo e 350 mila cinesi)  che assomiglia in effetti più a una gigantesca lobby che a una forza politica. Eppure, piaccia o non piaccia, il PCC è l’ultimo vero, autentico partito comunista rimasto al mondo dopo l’evaporazione dell’Unione Sovietica e la scomparsa di Fidel Castro dalla scena politica. Che poi la Cina non si possa definire un paese puramente socialista con i suoi plurimiliardari, è un’altra faccenda.

Capitalismo di stato, mercato libero socialista, le definizioni anche contradditorie si sono sprecate per la Terra di Mezzo – Cina significa questo in cinese – che certamente non  rientra in nessuno standard  e vive una sorta di sdoppiamento apparente, tra un apparatcik classicamente comunista e una società civile che insegue i più sfrenati sogni occidentali. I miliardari in Cina stanno crescendo a ritmo esponenziale, e i loro metodi assomigliano a quelli usati dal capitalismo non temperato degli anni dei boom economici nostrani. Gli operai dormono nelle fabbriche mentre i capitani d’industria con la stella rossa -quasi sempre membri del partito – viaggiano in Ferrari, hanno megaville in collina, giocano a golf, acquistano yacht di lusso ed aerei executive in numero sempre maggiore. 

Eppure lo scenario del 18° congresso del PCC in corso a Pechino nel tetro palazzo dell’Assemblea del Popolo, è sempre lo stesso. Le inquadrature televisive studiate e dosate, i volti impassibili dei dirigenti, gli anziani sostenuti  dai più giovani, ansiosi di far loro le scarpe ma rigidi nei loro completi scuri che indossati da loro ricordano tanto le casacche verdi di Mao. E quasi 3000 delegati che eleggeranno il Comitato centrale, che a sua volta eleggerà un Politburo di 22-25 membri, che a sua volta sceglierà i 7-9 membri del Comitato permanente tra cui il segretario generale-presidente.

Ma stavolta dietro ai drappi e alle divise dell’Esercito del Popolo  si combatte la battaglia del secolo.  Da una parte la cosidetta “cricca di Shanghai”, i neomaoisti raccolti intorno all’ex presidente Jiang Zemin (segretario dal 1989 al 2002) , l’uomo che ha praticamente istituzionalizzato la corruzione, e i Tuanpai, i “liberal” cinesi (per carità, la definizione va presa con le molle) i cui esponenti di spicco sono il presidente e il premier uscenti,  Hu Jintao e Wen Jabao. A spuntarla, secondo un programma che sarebbe già stato stabilito nei dettagli, dovrebbero essere due figure considerate a metà del guado fra i due gruppi: Xi Jinping, attuale vicepresidente, membro del Politburo,  definito come un “team leader” capace di giocare partite delicate servendosi di giocatori con caratteristiche molto diverse,  dovrebbe succedere a Hu; Li Keqiang,  membro del Comitato centrale, dovrebbe sedersi sulla poltrona di Wen Jiabao. Fanno tutti e due parte della cosiddetta quinta generazione di leader e per i prossimi dieci anni decideranno loro la politica e l’economia della Cina.

Xi, il nuovo “principino rosso”, famoso anche per esser sposato con la più popolare cantante cinese, è accusato dai suoi detrattori di aver fatto una carriera tutta in discesa in quanto figlio di Xi ZhongXun , eroe della Lunga Marcia e padre fondatore del Partito comunista cinese. Ma se ne infischia. Toccherà a lui portare il Paese fuori dalla secche della crisi (sì perchè il Pil di oltre il 9% del 2011,  che sarebbe pura manna  in Europa, è stato un duro colpo per una Cina abituata a una crescita a due zeri). Toccherà a lui trovare un modo per stroncare una corruzione  che sta diventando un virus distruttivo sempre meno tollerato da un popolo sempre meno disposto a essere suddito. Toccherà a lui trovare un rapporto con gli Usa, con l’Europa e con i vicini d’Oriente e Medio Oriente. Se i vecchi leader riusciranno a tenersi qualcosa  si vedrà. Hu sta facendo di tutto per restare a capo del Comitato centrale militare, uno dei principali centri di potere in Cina, ma qualcuno ha ispirato al New York Times un pezzo che mette in piazza tutte le fortune economiche che ha accumulato in dieci anni di potere.  Sono tutti ricchissimi i dirigenti cinesi, ma su chi sparare si sceglie di volta in volta. Ora tocca a Hu. Fra dieci anni, probabilmente, toccherà a Xi.