Potevi sentirlo suonare da ogni punto del quartiere, Mario Festival. Con la sua vecchia fisarmonica sulle scale di casa, prediligeva il dopo pranzo, in genere. Anche in estate, quando il caldo asfissiava anche le lumache sul ciglio della strada. Oppure il tardo pomeriggio, ma in inverno, con il buio già fitto e il vento che, sceso dall’Appennino, si infilava nei cunicoli tra le case e muggiva disperato, spingendo i ultimi ritardatari a rinchiudersi in casa. Lui, Mario, sembrava invece immune a entrambi i problemi: mai troppo caldo per ingobbirsi sui tasti e tirare il mantice, né troppo freddo per permettere alle sue dita di danzare leggiadre sulla tastiera.

Leggiadre, poi: il miracolo di Mario, va detto subito, non era tanto che avesse imparato a suonare così bene, nonostante il ritardo mentale. C’era un’altra cosa, nella sua condotta, che era molto più contraria alle regole della natura.  Erano le sue dita. Grossissime, paonazze, tozze, corte. Da muratore o contadino alla giornata. Dita buone per alzare le pietre, scavare la terra, segare tavole di legno e mille altri usi. Ma per suonare? Davvero? Lo venivano a vedere dai borghi vicini, per quanto era bello. Un omone alto un metro e ottanta, e pesante oltre il quintale. Malvestito, sdentato, bavoso. Ma se si attaccava a quella sua vecchia fisarmonica, la musica allora cambiava eccome. Se passavi lì davanti in quel momento iniziale potevi assistere alla metamorfosi. Vedere il suo sguardo perdersi all’orizzonte, la bocca spalancarsi e quei suoi salsicciotti sgraziati prendere a saltellare da un tasto all’altro, per coprire un’ottava tra pollice e mignolo, dosare la forza su questo o quel polpastrello e piroettare veloci sulla tastiera come ballerine di danza classica.

Così conciato, Mario suonava per ore, ogni santo giorno, e bisognava ascoltarlo ad occhi spalancati per credere che a tirare fuori quelle melodie fosse davvero lui. Perché chiudendo gli occhi potevi pensare di stare in un auditorium di una grande città tedesca, a osservare un ragazzo esile e dalle lunghe dita affusolate saltellare sul suo sgabello rapito dalla sua straordinaria musica. Te lo immaginavi così, poi aprivi gli occhi e davanti a te c’era il solito Mario, per tutti Festival: un dono della natura.

Chi c’era la prima volta amava spesso raccontare quale fu l’origine di quella sua magia. Fu quando il fratello, giovane professore di Lettere su in città, se ne tornò a casa per Natale con una fisarmonica e poi, davanti allo stupore generale, slegò con cura i lacci della custodia e tirò fuori una fisarmonica rossa, fiammante, bellissima. Ma tu suoni? Da quando? Ne hai il tempo? A quel punto Francesco imbracciò lo strumento e, nel silenzio generale, ne cavò fuori soddisfatto la melodia un po’ sconnessa e claudicante di “Romagna mia”.

Mario invece cominciò di nascosto, rubando la fisarmonica di notte e andandosi a rintanare nei campi fuori dal borgo. Ci prese gusto e coraggio, fino a chiedere lo strumento a suo fratello anche di giorno, che glielo accordò accomodante: “Giocaci pure – disse -, ma occhio a non romperla”. Poi, come sempre, tutti si dimenticarono di lui. Perlomeno finché a qualcuno, la notte di Natale, in piazza, nell’ebbrezza generale non venne in mente di chiamare Mario e di costringerlo a imbracciare la fisarmonica. Così, per ridere. Lui negò, loro insistettero, poi qualcuno gli cacciò con forza lo strumento in mano e il silenzio si alzò, tra i colpi di gomito e i risolini sommessi. “Beh, suona!” urlarono tra le risate generali. Ma il bello è che Mario suonò davvero, respirando affannosamente, affaticato dalla ressa e da tutta quella attenzione. Suonò per ore Mario, come un forsennato, lottando contro i tasti e il mantice, come se fossero uomini o vecchi briganti armati di pistola. La gente lo ascoltò ammaliata, rapita, incapace di comprendere. Sentiva quei suoni propagarsi dal centro dello strumento e non poteva fare a meno di ballare, ridere, cantare.

Più o meno da allora, per tutti, Mario è semplicemente il Festival. Tanti, negli anni, hanno imparato a suonare solo guardandolo. Anche Luca Semprini, in arte Tony Sheridan, il cantante e fisarmonicista dei Contratto Stabile, la band del momento. Capitò che dopo il primo album e il successo di “Spiagge desolate”, i Contratto stabile furono invitati al Concertone del Primo Maggio. A quel punto nella mente di Sheridan si insinuò il tarlo di invitare il vecchio Mario Festival, come guest star sul palco. Solo che Festival nel frattempo era peggiorato. Aveva sessanta anni e ne dimostrava centodue. Non suonava quasi più, e usciva di casa ancor meno. Sheridan impiegò tre giorni a convincerlo che lo avrebbe voluto con sé. Ci riuscì, e quando venne il Primo maggio, prima dell’alba Festival era già fuori dalla porta, imbardato come se fosse inverno, e con indosso un improbabile abito gessato, vecchio forse di vent’anni.

Sheridan venne a prenderlo, presero un treno, scesero a Roma, raggiunsero un hotel e subito dopo piazza San Giovanni. Troppa gente nel backstage, Mario se ne stava in disparte, dondolandosi sulla sedia, perso in pensieri imperscrutabili. Cominciò il concerto, le band si alternarono, la piazza ballò e lentamente calò il sole. Finché venne il tempo dei Contratto stabile. I ragazzi salirono sul palco e dopo aver fatto ballare tutta la piazza con i primi due brani, Sheridan disse: “Ora vorrei qui con me un vecchio amico”. Mario si fece guidare sul palco. Trovò una sedia. Si sedette. Le luci lo accecavano. Di quel milione di persone non riconobbe che un mare in tempesta. Si fece silenzio, lui avvicinò la bocca sdentata al microfono ma non disse nulla. Dal pubblico risero. Mario allora chiuse gli occhi, si ingobbì, prese a dondolare per un tempo che sembrò lunghissimo, quindi mosse il mantice lentamente. Ne uscirono poche note, sembrava un valzer antico, gentile e delicato. Ma poi successe che il mantice iniziò a gonfiarsi e quel valzer si trasformò in una polka. Il ritmo crebbe, la fiammante sembrava spezzarsi in due a ogni movimento. La polka era già diventata qualcos’altro. Come una mazurka, ma molto più incazzata. Quasi un sirtaki, ma fatto di sbalzi, sberleffi e colpi in levare.

Quello era solo l’inizio: partì da lì una melodia, una cascata di scale, di salti tonici, di note percussive, accompagnata da una furiosa successione di bassi e arpeggi. Festival a quel punto era alla sua apoteosi. Sudava e si comprimeva, soffiando nel microfono un lamento lancinante. Le note divennero cento, mille, un milione. Lui provò ad alzarsi, ma cadde a terra, spalle al pavimento, e vi rimase. Da quella posa iniziò i suoi assoli disperati. La piazza ora aveva smesso di ballare. Gli ubriachi, i facinorosi, i fan di Vasco che sarebbe arrivato dopo, tutti smisero di dire qualunque cosa. Mario urlava senza voce, in una pioggia di dita furiose: la sua canzone divenne in una sinfonia, un’opera omnia, un’orchestra di mille violini, poi tutto si mescolò in un finale lisergico e infinito.

Uno, due, tre soffi imperiosi di mantice anticiparono l’ultima nota, e quando anche questa si fu spenta, piazza San Giovanni sembrava essere scomparsa. Non volò una mosca, nessuno disse ahi. Trattennero tutti il respiro finché fu possibile, poi dalle retrovie partì un rumore sommesso, che si innervò lungo i lati, in crescendo, rimbalzò a sinistra, riecheggiò a destra, salì in cielo e ritornò a terra. Fu un fatto mai visto: un applauso che durò tre, cinque, dieci minuti, e quando si esaurì lo speaker impiegò dieci secondi buoni per provare a dire qualunque cosa. Nel frattempo Mario era già sceso dal palco, sorretto da due runner con i pass penzolanti dai pantaloni. Sheridan giurò a se stesso che lo avrebbe voluto al centro del prossimo disco della band. Glielo avrebbe detto il giorno dopo. Sperava solo che Mario ne sarebbe stato contento. Pensiero inutile: Festival era già contento.

Così lo trovarono il giorno dopo, nella sua camera d’albergo: sorridente, gli occhi al cielo, un sorriso largo e sdentato e le dita tozze contratte come in un assolo. Il cuore fermo come chi, finalmente, ha sentito forte e chiara la musica dell’universo. Da allora Mario è eterno, e quando nel borgo il vento suona tra i vicoli, qualcuno dice “è tornato Festival”. E un sorriso non può che accendersi su tutti i volti.