Nel borgo non è che ci fosse così tanto da fare per gli adolescenti. Potevi iscriverti alla scuola calcio o, se non avevi i piedi buoni, teorizzare i pallonetti in uno Juve Club. Potevi stare immobile per giorni al bar della piazza oppure in movimento perenne, facendo cento volte al giorno il giro del paese in scooter. Un bel circuito, sia ben inteso, pieno di ostacoli e di varianti al percorso. Un bel giorno, per dire, proprio per evitare la noia dei cittadini, un sindaco decise di invertire il senso di marcia dell’anello. Fu il giorno in cui il maestro di chitarra che veniva dal capoluogo, ignaro del cambiamento, si fece mezzo giro contromano scansando i motorini e pensando tra sé e sé: “Questi sono tutti pazzi!”.
Il maestro all’epoca era giovanissimo, si era appena diplomato al conservatorio e, in attesa di un lavoro vero, aveva accettato di sobbarcarsi centinaia di chilometri al giorno per convincere una frotta di autodidatti di montagna che la chitarra era un mondo infinitamente più complesso di quei quattro accordi buoni per accompagnare un pezzo di punk o di musica popolare.
Tra quei ragazzi c’ero anche io, e di quell’incontro a distanza di anni ricordo tutto come un’epifania: di come staccammo la spina degli ampli, per scoprire con scalpore le corde di nylon, il leggio, il poggiapiede, le unghie lunghe solo nella mano destra, curate e lavorate quanto e più di una donna. La musica nuova che ci portò il maestro era quella senza tempo di Fernando Sor, Mauro Giuliani Heitor Villa Lobos, Andres Segovia, o contemporanea alla Paco De Lucia, Maurizio Colonna, Roland Dyens.
Andavamo avanti così, di settimana in settimana: non facevamo in tempo a rimpiangere i Pynk Floyd che a fatica compitavamo uno spartito (eravamo stati autodidatti, chi ne aveva mai letto uno?) e ci si apriva un mondo. Poi ogni volta a un certo punto suonava lui, e la stanza si colorava con Pino Daniele, la bossa nova, Mark Knopfler, Tango en skai di Roland Dyens.
Lui, il maestro, aveva sempre la battuta fulminante, e tra una musica e l’altra apriva una pagina a caso della sua immaginaria enciclopedia, disvelando mondi. Come l’universo delle mani: non servono effetti elettronici, diceva, nella postura della tua mano destra ci sono già tutti i suoni possibili in natura. E cominciava il suo valzer delle dita: si avvicinava al ponte e partiva l’acustica, fletteva l’indice di taglio sulle corde basse e il suono si distorceva, inclinava le dita e il polpastrello trasformava il metal di prima in un’arpa celestiale.
Per noi era un semidio, il maestro. Un fratello maggiore di cui vantarsi. E poiché oltre a saper suonare aveva una cultura spropositata, che dispensava con comica allegria, passammo in breve dal chiedergli la diteggiatura di uno spartito ai consigli sulla vita. Molti di noi non sono diventati chitarristi, ma è alla musica che continuano a prestare orecchio per scoprire il mondo. Tanto è alla musica che si collega tutto.
Alla musica sono legati anche i tre segreti inestimabili scoperti in quelle lezioni. Il primo riguarda la matematica, che molti di noi odiavano. E allora lui prese due dita, le schioccò su una corda per creare un armonico, poi prese carta e penna e fece esplodere quel suono, per mostrarci l’aritmetica successione degli armonici, che si ripete perfettamente uguale e infinita dietro ogni singola nota.
Il bello della musica, diceva, è che ci permette il massimo della creatività e degli infiniti mondi attraverso uno schema di regole fisso e perfettamente prevedibile.  Ci disse poi anche che, se parliamo di estro, il troppo stroppia sempre. La perfezione? E’ uno schema semplice e orecchiabile che, quando pensi di aver capito, ti stupisce con un virtuosismo inatteso che, bada bene, più lo usi, più si consuma.
L’ultimo segreto è quello più esportabile. E’ un imperativo: bisogna-ascoltare-tutto. Tutto. Senza pregiudizi. Spogliandosi dei gusti personali per prestare orecchio a ciò che non abbiamo mai voluto sentire. E se ci fa schifo, tanto meglio! Facile rinchiudersi nella prigione dorata di ciò che conosciamo e che ci tranquillizza, precludendoci ogni spazio di miglioramento. Aprire le finestre ogni mattina, piuttosto, e cambiare musica: “Non è detto che tutto vi debba piacere. Ma di per certo tutto in qualche modo vi tornerà utile”.
Guardare oltre le proprie siepi, ho capito in quel momento, in fondo è il segreto dei segreti, il Sacro Graal della conoscenza, una lente caleidoscopica che mette tutto sottosopra e che da allora cerco di usare ogni giorno. Il fatto stesso di ricordarlo ora, infatti, fa sbiadire ogni retorica e cambia le carte in tavola: questo non è più un ricordo funebre, è un Inno alla gioia! Ed è anche il solo modo che posso concepire per ricordarti, maestro Pietro Aldieri. Ma ora vai con l’assolo.