Era estate: il grano dorava nei campi pronto a essere mietuto, nelle vigne che digradavano verso il mare l’uva ingrossava i suoi acini succosi e sulle spiagge l’odore acre delle creme solari si alzava alto nel cielo, trasportato dalla brezza assieme a folate di tormentoni estivi. In campagna infatti era tutto un frinire di cicale che, nobili e longilinee come soldati greci, si esibivano tutto il giorno in assoli, duetti e sinfonie complicate.

Era un piacere sentirle, per i primi cinque minuti. Poi invece, quando il sole arrivava allo Zenith, e il caldo ingrossava le vene e disseccava le faringi,  nestamente ne avresti fatto a meno. Soprattutto se stavi lavorando: a ora di pranzo, e con quel caldo, in genere le formiche procedevano in fila indiana già da otto ore. Attraversavano la foresta selvaggia e piena di pericoli dell’aiuola, si inzaccheravano di polvere lungo lo sterrato, superavano la statale squassata dai terremoti e poi le dune della spiaggia fino a raggiungere gli accampamenti degli umani. Al ritorno, carichi di briciole fino all’inverosimile ripercorrevano il percorso inverso con la gola arsa e il fiato spezzato. Difficile, dato il contesto, non inveire contro quegli urlatori, passando sotto alla grande quercia davanti al cafè dell’Oleandro, al Bouganville club e a uno di quei mille posti dove le cicale passavano le loro ore a suonare, bere linfa e strafogarsi di polline.

C’erano state anche varie raccolte firme. Non sarebbe possibile limitare, almeno di notte o nell’ora del riposo pomeridiano, tutta quella caciara, per consentire a chi lavora tutto il giorno di dormire il sonno dei giusti? Ma l’amministrazione era dalla loro: si barricava dietro ai regolamenti, e opponeva le regole non scritte dei posti mare, in cui l’accoglienza turistica e il divertimento passavano a ogni cosa. E poi anche il pubblico era dalla loro. Non c’era estate che questa o quella cicala non se ne uscisse con qualcosa, un trillo diverso, una variazione sul tema incastonata su quel loro ritmo sempiterno e orecchiabile, per diventare subito la star della spiaggia. Così formiche e cicale si guardavano in cagnesco e ogni mattina fiorivano proteste per questo o quel detrito notturno che interrompeva la strada, costringendo le formiche ad ampie deviazioni, e ogni mattina dalle parti dell’Oleandro o del Bouganville, le cicale che andavano ad aprire bottega si ritrovavano di fronte a qualche anonimo sabotaggio: le foglie brucate proprio nel punto in cui il raggio di sole s’insinua, una dubbia colata di pece dalla corteccia del pino sovrastante e simili angherie. Eppure dalle parti delle cicale c’era il pubblico. Numerosissimo, ogni giorno e ogni sera: un viavai di insetti, tafani, vespe, mosche e nobili api, attirate dalla bella musica e da quell’abbondanza di fiori stracolmi di cibo.

Così la dolce estate andava avanti, colma di gioie e spensieratezza, tra una hit radiofonica e un megaraduno sui rami alti, un rave notturno e lascivo e quei festival che duravano giorni, con tutte le cicale venute anche dagli alberi vicini e quei canti che obiettivamente, nel bene e nel male, ti entravano nelle orecchie per rimanerci impressi.

Le formiche, sempre più incazzate, si concentrarono sul lavoro: una catena di montaggio infinita che riempiva le tane di molliche di ogni foggia e fattura. E quando anche il grano maturò, le sue spighe un bel giorno finirono tutte a terra recise, come tagliate in sincrono dalla mano di un dio vendicativo, e poi sparirono chissà dove lasciando a terra solo calura, steli gialli e una marea di chicchi orfani. Per le formiche operaie a quel punto non ci fu protesta o sindacato che tenesse: iniziarono gli straordinari. Lunghi, massacranti e prolifici. Il tempo del riposo si ridusse ancora e migliaia di formiche operaie si ritrovarono a sbocconcellare il pranzo per strada, venendo in qua dalla spiaggia, prima di lasciare il carico nella tana e passare in là, verso il campo, a caricarsi sulle spalle quei chicchi turgidi e pesanti che durante l’inverno ne avrebbero sfamate a decine.

Ah, sì, perché sarebbe arrivato l’inverno, lo sanno tutti, e a quel punto ci sarebbe stato da ridere. Era, quello, il solo pensiero in grado di tenere alto il morale nella colonia. Un bell’inverno freddo e gelido, con le folate di vento, i rami secchi e magari la neve, da guardare scendere nel caldo delle proprie tane, mentre nei paioli si scaldano le briciole di piadina cotto e fontina trovate in spiaggia e sulle graticole scoppiano i chicchi di mais per diventare soffici pop-corn. Con una prospettiva del genere, l’inverno rigido non avrebbe fatto loro paura. Sarebbe bastato solo limitare i movimenti in esterna e non esagerare col cibo. Come si dice? Una vita morigerata e un desco poco abbondante sono la ricetta per campare tre anni.

 Su questa promessa passò tutta l’estate, e settembre trovò una spiaggia sempre più svuotata, squassata da piogge ben più lunghe e sottili di quelle agostane, scavata dai continui castelli di sabbia degli umani, bruciata dai falò. Spariti loro, anche le zanzare, i tafani e l’intera folla di insetti festaioli che per due mesi aveva riempito il Cafè dell’Oleandro, il Bouganville e gli altri live club negli arbusti rese l’anima a dio perché era giunto il suo tempo o prese gradualmente la via del letargo e della migrazione. Anche i fiori del bouganville e dell’oleandro d’altronde, dopo un’estate così intensa e affollata, non erano più gli stessi. Molti erano già caduti, e quelli che ancora resistevano aperti, avevano petali sbattuti, poco polline e un aspetto sempre più rinsecchito.

La musica nei locali continuava, ma era sempre più flebile. Di quei festivaloni in cui si alternavano sul palco decine e decine di cicale, delle affollate jam session e dei concerti notturni quasi non c’era più traccia, ormai. Riecheggiavano nell’aria solo poche litanie malinconiche e di quasi tutti i tormentoni dell’estate, che a Ferragosto risuonavano per ore sempre uguali a se stessi, e che parevano già geniali, insostituibili e intramontabili, il pubblico si era poi velocemente stancato con le prime piogge. Quell’acqua che scrosciava lunga e desolante, per molti sancì il tempo per cambiare musica, ritornare ai mostri sacri, alle certezze del mercato: le nenie di gatto intramontabili e tutte italiane, l’abbaiare rassicurante e internazionale dei cani, le sinfonie vivaldiane degli uccelli da voliera.

Tutta musica da camera, giacché il tempo fuori era diventato proibitivo. Al chiuso dei locali i balli estivi erano complicatissimi, se non impossibili, così nessuno a un certo punto pagò più un polline per chiamare a cantare una cicala. E le cicale caddero in rovina.

Una dopo l’altra.

Appesantite nel fisico da un’estate di eccessi e dimagrite dalla carenza di cibo. Qualcuno, certo, si batté per loro. Venne istituita una legge, sottoscritta ai primi di ottobre. Serviva a sostenere economicamente le cicale che più si erano distinte per estro e produzione culturale durante l’estate e che con l’inverno si trovavano a corto di cibo. Ma era complicato accedervi, e in ogni caso i fondi erano pochissimi, non sarebbero bastati per tutti.

La maggioranza delle formiche di tutto questo quasi si disinteressò. La vita nel formichiere, d’altronde, in fondo scorreva placida e tranquilla. Nessuno sbalzo, nessun colpo di scena, nessuna novità: era una noia immane. Così a un certo punto, quasi sommessamente, qualcuno in casa, sotto la doccia si scoprì a canticchiare questa o quell’altra delle odiate hit dell’estate, storpiandone per vergogna melodia e parole all’arrivo di un parente. Eppure erano canzoni che mettevano allegria. Poi, certo: con l’arrivo dell’estate ne sarebbero arrivate di nuove a frotte, e loro intenti a lavorare le avrebbero odiate. Però quei mesi di cassa integrazione invernale erano una noia mortale, un’anticamera alla depressione, e tra le poche medicine per ovviare al grigio di quelle tane, quasi segretamente si sviluppò un’abitudine tutta privata e mista di ricordare le cicale, le loro canzoni ossessive e quell’aria festante che si percepiva passando davanti al Bouganville.

Il revival divenne una moda e così, estate dopo estate, alcune hit anziché morire presero a sopravvivere negli anfratti. Prima segretamente, poi sempre più allo scoperto. Nacquero, nel formichiere, dei localini dove al giovedì sera ci si poteva riunire, bere linfa, mangiare molliche e ascoltare questo o quel cicaleccio. Finché a qualcuno non venne un’idea indicibile: perché non trasformare quelle serate revival in veri e propri concerti di musica dal vivo? Nacquero come funghi delle cover e tribute band di formiche che si vestivano da cicale e ne scimmiottavano il canto in serate revival a tema. Ma le formiche, a suonare, erano davvero una jattura.

DA QUI LA NUOVA PUNTATA

E allora perché non invitare qualche vecchia cicala? Non fu facile: molti erano migrati verso est, dove ancora il loro nome riempiva le chiome degli alberi, altri avevano smesso di cantare, avevano cambiato lavoro, oppure si erano sposati (cantare, chiariscono le enciclopedie, serve loro proprio a quello), avevano in casa tre o quattro larve e conducevano una vita lontano dai riflettori.

La richiesta delle formiche, però, ormai era tanta, e la paga, in quell’inverno di stenti e magrezze, poteva arrivare fino a tre briciole di piada e un chicco di grano. Così alcune cicale si fecero convincere. Nacquero reunion su reunion, tornarono in scena vecchi mostri sacri senza un brano nuovo ma con un repertorio stellare, e a volte neppure quello: bastava una hit, ma dal successo e senza tempo, per esibirsi di formichiere in formichiere per mettere insieme un cachet più che dignitoso. Certo era buffo vedere alcune di queste vecchie cicale vestirsi d’estate e urlare e dimenarsi nel buio di una tana di formiche. Ma business is business, lo show deve andare avanti. E allora musica maestro: “Il sole rosso fa l’arancia, di lassù, la luna gialla fa il limone, di quaggiù. Per cui la quale: cicale, cicale, cicale”*.

FINE

Morale

Questa fiaba vuole metterci in guardia dai giudizi affrettati sulle hit estive. In fondo anche la loro allegra futilità serve a qualcosa. E poi chi l’ha detto che la vita deve essere costellata di successi? Ne basta uno, poi campi di Siae.

* 1983, ‘Cicale’, di Capitta, De Vita, Miseria, Testa / Capitta, De Vita, Miseria, Ricci, Testa. Canta Heater Parisi