Cesare Sughi era un omone che i mille acciacchi avevano curvato senza riuscire a limarne la statura. Cesare era un uomo di gran cultura, e questo s’è detto: allievo di Anceschi, professore al Malpighi, editore con Bompiani eccetera eccetera, anche se ad averlo di fronte non lo avresti mai detto. E’ che il suo corpo a un certo punto se n’è andato per i fatti suoi, e come un ritratto di Dorian Gray è invecchiato in fretta solo per permettere alla sua mente di ringiovanire.
Sughi da anni rispondeva alle lettere del Resto del Carlino, e i lettori lo veneravano. “Voglio parlare con Sughi”, “Vediamo che ne pensa Sughi”, tanto che Danilo Masotti in un suo libro ne fece un neologismo: dicesi ‘sughista’ colui che scrive una lettera a Sughi. Sughi che veniva in redazione in autobus, trasandato, con le sue giacche lise, la barba sfatta, le mille sportine, e a non conoscerlo non avresti mai detto che era proprio lui quello che poi dialogava brillante, discettando di auto veloci, lui che non guidava, di videogame, di musica trap, di brodo di pollo, di ermetismo, di social network, di posti esotici, di religione, figa, morte, fisica quantistica, numeri primi e chissà cos’altro.
“Cesare, ma tu che ne sai?”, lo sfottevo. “Non ne so un cazzo, vecchio filibustiere, però ho fatto i compiti”. E a leggere le sue risposte, infatti, non potevi che immaginarlo esperto da anni di quel dato argomento. Cesare-poteva-parlare-di-tutto, ma proprio di tutto, senza dire mai una banalità o un’inesattezza. E amava quel suo dialogo con i lettori perché, poco incline all’introspezione, era nello scambio di battute, nella riflessione su un tema dato, che dava il meglio di sé.
Cesare chiamava quando facevo il turno di notte per chiedere di correggergli un refuso, e nel silenzio finalmente calmo della redazione la telefonata diventava subito il dialogo di un film, o di un romanzo di Dumas: veloce, arguto, brillante. Con o senza binario. Perché Sughi potevi farlo parlare anche un’ora dello stesso argomento, senza che mai si ripetesse, oppure potevi divertirti a cambiare direzione al dialogo ogni volta che era il tuo turno, tanto lui ti veniva dietro e rilanciava la palla con stile, ma senza mai chiudere la partita con un tiro troppo fuori dalla tua portata.
Ho in mente mille pezzi di Cesare che avrei voluto imparare a memoria, ma più di tutti ho amato i suoi pezzi senza argomento. Come le sue Cronache da una panchina. Si sedeva in un parchetto sempre diverso, guardava in aria per un’oretta, poi tornava a casa e scriveva una pagina di mondo, semplicemente di mondo.
Cesare Sughi è stato bello conoscerlo.
Altroché.