Pino Daniele era un ragazzo dei vicoli. Figlio di portuali, primo di sei figli, la musica che non potè studiare sgorgò in lui, come spesso accade, per una somma di negazioni. Povero, senza mezzi, e con le mani sbagliate. Basta guardarle: piccole, tozze, con le dita che paiono salsicce. Tecnicamente impossibile farle danzare sui tasti di una chitarra classica, ed è anche questo che ne fa un predestinato.

Enfant prodige, descritto sempre serio, lo sguardo attento, la certezza che nulla è gratuito e dunque quel che ti capita di sentire, o vedere, bisogna prenderlo. Passò i suoi primi quindici anni ad assorbire musica come una spugna, roba che a Napoli voleva dire principalmente canzoni popolari e bel canto, perlomeno fino all’arrivo dei Napoli Centrale. Con loro, come per miracolo (e a quel miracolo daremo nome James Senese), il folk cominciò a colorarsi di jazz, di blues, di rock e di mille altre storie. I Napoli Centrale erano geniali, ricercati, bravissimi, enciclopedici e un po’ alieni. Bisognava che qualcuno partisse da tutto quello e lo riportasse pancia a terra, di nuovo in contatto con i suoni di Napoli.

Lo fece per loro un giovanissimo bassista che da qualche mese avevano accolto con loro, ma che in realtà era un chitarrista, tornato in città dopo un anno di tournée con Bobby Solo e con un passato recente in sala prove con Enzo Avitabile e Rino Zurzolo, in una band dal nome aulico e commercialmente folle, i Batracomiomachìa.

Pino Daniele, in quell’anno con i Napoli Centrale, compose due canzoni proprie. Brani visionari, popolani, brillantemente ironici. ‘Fortunato’ e ‘Che calore’ raccontavano le storie dei vicoli con la cifra del blues, del jazz e di quell’incredibile miscuglio alla Senese, nero dei bassi, figlio di una notte d’amore tra una napoletana e un soldato americano. Entrambe le canzoni finirono in ‘Terra mia’ primo album solista, che attestò Pino Daniele come nuova proposta della canzone napoletana grazie a brani iconici come ‘Napule è’ e ‘Na tazzulela ‘e cafè’.

Ma era decisamente troppo poco e quel tipo lì era molto di più. Doveva trovare il modo di mostrarsi appieno, così un bel giorno si fece la barba, immortalò quei momenti in quattro scatti e ne fece la copertina di un disco a cui diede semplicemente il suo nome, Pino Daniele. Si apriva con ‘Je sto vicino a te‘ e obiettivamente per presentarsi non avrebbe potuto scegliere meglio.

Dialetto, testi graffianti e voce sforzata, ironia e malinconia su un tappeto di jazz contaminato e avviato senza preamboli. Niente fade-in, alcuno one-two-three. Solo uno sguardo, poi subito pronti e via: rullante mollato, chitarra strappata, basso melodico e tarantolato, congas, pianoforte elettrico e il sassofono di James Senese. Il genio? Per me arriva attorno ai due minuti. E’ un assolo cantato a voce, in coppia con il basso, su un uno sfondo di sax e pianoforte saturo.

Il resto del disco è iconico, da ‘Je so pazzo’ a ‘Putesse essere allero’. Ma in un albm con quella copertina e quel titolo, serviva ‘Je sto vicino a te‘ per poter dire al mondo ‘vedete, io sono questo qui’. Nessuno, da quel momento, in poi l’avrebbe più dimenticato.