Scrive Gino Castaldo: “Elio e le Storie tese hanno la colpa di averci abituati al meglio. Il pezzo dell’addio sfiora il didascalico. Inaccettabile”. Valga uno per tutti, visto che è questo il tenore di tutti i commenti (e dei voti, impietosi) ricevuti stamattina dagli Elii per la loro canzone d’addio al Festival di Sanremo, e alla musica.

Facile, una volta tanto, dire: lo avevamo previsto. Intanto perché c’era il prequel: quel finale di carriera pasticciato, con l’annuncio dell’addio, poi di un ultimo tour, quindi di un ultimo festival. E chiariamo una cosa: è da credere il giusto al fatto che quei gran mattacchioni avessero pianificato tutto, che fosse tutta una gran scena, l’ennesima, come quando litigavano in diretta tv col finto spettatore che li disprezzava, o quando ai concerti degli esordi facevano le presentazioni del gruppo scendendo in platea a stringere mani. Scontato ricordare che un gruppo di artisti litiga anche quando fa il burlone, che la comicità è una professione seria e che la gente cambia idea, anche quando sembra coerente.

Centra nel segno Castaldo quando dice: “Hanno la colpa di averci abituati al meglio”. Ma il meglio cos’è? Cosa avrebbero dovuto fare? Il punto è che non possiamo e non vogliamo accettare il fatto che qualcuno che ha sempre scherzato a un certo punto faccia sul serio. Che quando il situazionismo si spinge ai suoi apici, mima la realtà. Qual è il tetto massimo dell’originalità pura? La didascalicità. Gli Elii lo sanno da sempre, ed è per questo che una volta ancora, forse l’ultima, meritano un dieci e lode.

Intanto perché sono saliti sul carrozzone del Festival, dopo avere annunciato il loro scioglimento, spiazzandoci un’ultima volta. Poi perché hanno cantato una canzone che si chiama Arrivedorci, e che racconta la loro storia, né più e né meno, senza calembour, giochi di parole e testi surreali, solo ammiccando lievemente, e rifacendosi sul finale al fascino malinconico della comicità da manuale, quella muta e in bianco e nero. Quella di Stanlio e Ollio.

Non ci hanno stupiti, forse? Era ciò che cercavamo da loro. Avremmo detto: “Insuperabili questi Elii!” anche di fronte all’ennesima Terra dei Cachi, ironica, comicissima, musicalmente eccelsa, piena di testi e sottotesti che stiamo ancora qui a studiare dopo anni? Qualcuno dice che ormai non sono più in grado di farlo. Forse hanno ragione, perché nulla è eterno. Ma qui la verità è anche un’altra: quello non sarebbe stato un finale.

Lo sono, invece, i titoli di coda di “una storia unica / una carriera artistica / Dolcemente stitica, ma elogiata dalla critica”. Perché questi gli Elii in fondo sono sempre stati: troppo bravi per poter essere presi davvero sul serio. Troppo geniali per poter essere normali, e magari vincerne di uno, di Festival. Eterni secondi come Toto Cutugno perché non vorrai davvero far vincere il festival a dei guitti, seppure ineguagliabili. Ci siamo divertiti però, e si sono divertiti anche loro. E’ stato bello, poi ridendo e scherzando si è fatta mezzanotte. La storia in qualche modo si deve chiudere, e i “The end” più belli in fondo sono quelli che ti spiazzano: “Ogni storia si esaurisce col finale / un finale che ti lascia a bocca aperta”.

Ecco, non possiamo dire che non ci abbiano spiazzati. Didascalici al limite del vero: la strofa “La carriera è andata molto bene, per fortuna”, diciamo la verità, è una frase così fatta che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirla e cantarla davvero. Ma a loro tocca sempre l’onere di dirci che il re è nudo, spuntando sul palco dell’Ariston sovente vestiti da uomini dello spazio, quali in fondo sono sempre stati. Marziani dello star system, nazionalpopolari, sempre a parlare di cacca e pupù, pur cantando e suonando in un modo coltissimo.

L’addio, siamo d’accordo almeno su questo, doveva “lasciarci a bocca aperta”, e così è stato: con gli Elii tutti in schiera a cantare “Arrivedorci” in un serissimo, tristissimo coro. Patetico, nel senso di pathos: mano sul cuore e assolo di Cesareo. La critica è spiazzata, i fan hanno pianto per la prima volta, il grande pubblico non ha capito. Poco male: Elio e le Storie tese sono marziani, si diceva, da sempre condannati all’avanguardia. Ne riparliamo perciò tra vent’anni.

Simone Arminio