Falso che l’imperscrutabile non può essere narrato. Lo dimostra Krys Lee, una coreana del sud, vissuta a lungo in Usa e Inghilterra, che nel suo Paese d’origine è tornata a un certo punto per ritrovarsi, insegnando scrittura creativa e letteratura all’università. Il primo choc, racconta lei stessa in varie interviste, è stato capire quanto il luogo ricordato e raccontatole dai suoi genitori fosse diverso da quei posti. La memoria falsa le cose: lo capisce subito anche uno dei protagonisti del libro, Danny, adolescente vittima di bullismo, fuggito dagli Stati Uniti in cerca di una Cina mitizzata della sua infanzia che nella realtà non esiste.

Danny è di sicuro il più sui generis tra i tre narratori di ‘Come siamo diventati nordcoreani’ (2017, Codice Edizioni), un piccolo capolavoro di racconto e documentario, realtà e finzione, libertà e oppressioni, che Krys Lee ha scritto per far conoscere al mondo le storie invisibili dei fuggiaschi di Pyongyang. L’autrice racconta di essere stata pregata, a un certo punto della sua permanenza in Corea del Sud, a impegnarsi da volontaria nell’accoglienza dei transfughi nordcoreani, perché sudcoreana ma anche americana, e perchè non ha interessi, non vuol fare carriera, non fa politica, non è religiosa e non è legata a una Ong di ‘professionisti del bene’ a tutti i costi, argomento stradibattuto in questi giorni.

Così ha cominciato Krys Lee a interessarsi di Nord Corea. Un paese malvagio e concreto negli occhi e nei racconti di quei redivivi passati incolumi al di là del confine. Sono storie troppo buie le loro, troppo crude e troppo vere per non raccontarle, presto o tardi, nonostante il dolore che causano. Così a un certo punto Lee ha superato i dubbi e i dogmi (‘non è la mia storia, non è giusto che sia io a raccontarla’) e si è messa a scrivere. Consegnandoci un romanzo a tre voci, forte e potente come un fiume. Lineare la struttura, poetica e contemporanea la scrittura, fatta in prima persona da tre voci narranti: quella dell’americano Danny, gay, disadattato e ultracattolico, quella del figlio di un politico nordcoreano poi decaduto, Yongju, e di Jangmi, esile adolescente e donna già fatta, nata poverissima in Nordcorea e da lì fuggita incinta per il diritto di assicurare a sua figlia un futuro migliore.

Sono Yongyu, Danny e Yangmi ad alternarsi, in staffetta, nel racconto di tre storie che a un certo punto, inevitabilmente, si intrecceranno. Quattro sono invece i movimenti narrati: Attraversare, il Confine, Al sicuro e Libertà. Vagamente sovrapposti per dimostrare la tesi del libro: non basta attraversare per disfarsi dei confini e non è sufficiente stare al sicuro per essere liberi. Libero e al sicuro, forse, anzi, qualcuno non potrà esserlo mai, perché troppe sono le ferite che lascia sulla pelle una feroce dittatura di cui sappiamo inaccettabilmente così poco come quella di Piongyang.

Le prime venti pagine di ‘Come siamo diventati nordcoreani’ in questo sono drammaticamente plastiche: c’è una cena gioviale, al cospetto del Caro Leader (il padre dell’attuale dittatore), e ci sono una bellissima ex attrice e suo marito, il dirigente dell’ufficio governativo del commercio. Sono membri dell’elite, gente fortunata. Girano i bicchieri di cognac proibito, parte la sala da ballo, il Caro Leader obbliga tutti a dimenarsi. C’è il sudore, ci sono i pensieri nascosti, c’è l’ansia di assecondare il capo supremo. Qualcuno non tornerà a casa, ed è l’inizio della fine, o soltanto la vita quotidiana. Solo la prima di una serie di crudeltà che Krys Lee ha il pregio di raccontare senza intristirci. Ci avvinghieremo, anzi, a quelle pagine, ai ricordi e alle vicissidudini di quei tre fuggiaschi. In attesa di un lieto fine sperato, atteso, preteso. Quello che i transfughi hanno negli occhi a qualunque latidune. E che noi troppo spesso siamo bravi a ignorare.

Simone Arminio