Era un commiato, e io l’ho sempre saputo. Per me infatti, come forse per altri, era cominciato prima. Trenta maggio 2019: esce in libreria Il cuoco dell’Alcyon, Sellerio. Ce l’avevo sul comodino più o meno da allora, intonso. Un caso più unico che raro, visto che da quando mi hanno conquistato – in tarda età, come l’autore -, i libri di Montalbano godono di  una corsia preferenziale tra le letture e passano avanti, il lampeggiante tenuto appoggiato sulla scocca da Mimì Augello, tra l’invidia dei romanzieri in coda.

Dunque stavolta qualcosa di diverso s’era percepito, questo pare chiaro. Forse nella postfazione, in cui Camilleri ammette che quel racconto non è regolamentare e però, assicura, “me lo sono fatto leggere, e fila come un romanzo di Montalbano”. Era lì fermo, in ogni caso: nonostante le premesse non volevo sprecarlo e alla fine ho avuto ragione. Andrea Camilleri, il papà del commissario di Vigata e di molto ancora, è venuto a mancare due mesi dopo. Da allora ho atteso ancora, più di un anno: a quel punto mancava Riccardino, di cui tutti noi cultori conoscevamo il nome. Era la fine, che un tipo come l’autore di Porto Empedocle non poteva lasciare in sospeso o alla mercé di qualche autore televisivo. Camilleri, con lucidità estrema, a un certo punto l’ha pensata, l’ha scritta e l’ha consegnata in attesa degli eventi.

Questa estate li ho letti entrambi. Cosa mi aspettavo? Ne più né meno di quanto poi ho trovato. Su tutti e due ho letto critiche motivate, perché né Riccardino né Il cuoco dell’Alcyon sono alla pari delle storie sul commissario di Vigata. Camilleri si è divertito con noi? ‘Ci pigliò tutti po’ culu’? Sì, certo, questo pare ovvio. E io, essendo lui, al suo posto avrei fatto uguale. Per il finale soprattutto!

Vietati gli spoiler a chi fa il recensore, dunque da qui in poi non si può aggiungere altro. Basti sapere che se con Il cuoco dell’Alcyon semplicemente l’autore – per sua stessa ammissione e per genesi di quella storia – gioca a scimmiottare all’uso di Vigata i grandi polizieschi americani (quelli in cui il buono salta dal finestrino dell’auto in fiamme un secondo prima di finire nel burrone), con Riccardino Camilleri compie il miracolo di agganciarsi definitivamente alla più illustre tradizione letteraria isolana, con quella lucida follia che da secoli ha contraddistinto i romanzieri siciliani.

Un romanzo-testamento, d’altronde non poteva fare altro che giocare un’ultima volta con l’Umorismo pirsndelliano (come in una conversazione, una delle tante, con Bonetti-Alderighi). Infine Camilleri ha giocato una volta in più, e bene, sulla finta dicotomia tra romanzo alto e popolare, tra Letteratura e libelli, di cui da troppo abbiamo le tasche piene. Sono rimasto male? Certo che sì. Me l’aspettavo? Certo. E’ rimasta immutata la mia passione per Andrea Camilleri e per il suo Salvo Montalbano? Affatto, è cambiata eccome. Si è elevata e cristallizzata, e ora sta lì, dove nessuno la può più scalfire.

Peccato soltanto che sia dovuta finire. Ma non è poi così, in fondo, la vita? “La fregatura – suole dire un mio amico – era già scritta nel contratto”. Stava in quelle righe piccole, minuscole a fondo pagina, fatte apposta per imbrogliarti. Solo che noi, come tutti, non potevamo non firmare. Tanto più che, guardando mentre scrivo nella lunga fila dei ‘Memoria’ Sellerio, così piccoli e tutti uguali, la schiera dei Camilleri oggi è una lunga avventura che valeva la pena di essere vissuta al completo, Riccardino compreso.

Ps, mentre iniziavo queste righe, in spiaggia, una donna dalla sdraio di fianco leggeva assorta La gita a Tindari. L’ho odiata fino a farmi male.