Miracolo Ucraina alle Paralimpiadi. "La guerra ci ha reso invincibili"

Seconda nel medagliere dietro alla Cina. Gli atleti: abbiamo lottato per il nostro Paese, è una missione

Maksym Yarovyi, il portabandiera, e la delegazione ucraina all'apertura delle Paralimpiadi

Maksym Yarovyi, il portabandiera, e la delegazione ucraina all'apertura delle Paralimpiadi

Erano a Pechino quando tutto è cominciato. Hanno vinto comunque e più degli altri dai primi giorni delle Paralimpiadi. E alla fine sono arrivati secondi, a un passo dalla Cina. Di giorno la gloria, di notte l’insonnia che si nutre di impotenza e preoccupazione. Si dice che gli atleti ucraini abbiano continuato a battere tutti smettendo di dormire. L’adrenalina sciolta nell’angoscia di sapere un padre o un figlio sotto le bombe dall’altra parte del mondo sono un doping formidabile: occhi spalancati, nessuna speranza di ristoro. E quel pugno alzato in silenzio durante la cerimonia di chiusura dei giochi, davanti al manifesto che chiedeva la pace in giallo e blu, è stato un omaggio a tutti i morti immaginati da lontano, alle famiglie da cui non arriva più risposta e a chi ha ancora voglia di fare il tifo. Spiegata da Valerii Sushkevych, presidente del comitato paralimpico ucraino: "Questa è la nostra realtà. Cerchiamo di sapere se chi amiamo è ancora vivo. Sappiamo quanto la nostra partecipazione conti e siamo orgogliosi di gareggiare per loro".

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E a quel punto il valore della medaglia è relativo come per Grygorii Vovchynskyi, che invita a interpretare il suo bronzo nello sci di fondo con più attenzione: "Con tutto quello che sta succedendo per me questa è una medaglia d’oro. Dobbiamo essere forti insieme". Non perdeva occasione di ricordalo l’ex primo ministro di Israele Shimon Perez; nello sport si vince senza uccidere, in guerra si uccide senza vincere. In entrambi i casi conta la determinazione.

La tennista ucraina Elina Svitolina non ha avuto dubbi sulla sostanza da dare alla vittoria contro la russa Potapova a Monterrey: "Sono in missione per il mio Paese, uso le mie risorse per invitare il mondo ad aiutare la mia nazione". I futuri montepremi andranno in quella direzione, non si gioca da soli.

Ma lo sanno anche i non pochi atleti russi che si sono schierati contro la guerra: il tennista Medvedev, che ha cancellato la propria bandiera nazionale da Instagram, l’ex pallavolista Ekaterina Gamova, che non sa darsi pace: "Non avrei mai immaginato che la Russia avrebbe attaccato uno Stato europeo. Avrei potuto tacere? Avrei potuto. Ma mi vergogno". La sfida agonistica non scopre oggi di essere strumento di propaganda e mobilitazione sociale. Lo sapeva Stalin ("Gareggiamo con le nazioni borghesi sul piano economico e politico. Perché non farlo anche nello sport?"), lo sapeva Kennedy ("È nell’interesse nazionale recuperare la superiorità olimpionica, per dare una volta ancora al mondo la prova tangibile della nostra forza e vitalità").

Le ragioni politiche nello sport si intrecciano a quelle economiche e fanno vacillare il prestigio, oltre che gli sponsor. Il vero problema però è il fattore umano: l’atleta ucraino che vince, come pure il collega russo escluso dalle Paralimpiadi o il tennista normodotato che oggi macina soldi, ma ha cominciato lanciando palline contro il muro di un garage. Gente che per limare la prestazione si è sacrificata tutta la vita (nel caso delle Paralimpiadi moltiplicare per un numero a piacere), assieme al sottobosco degli assistenti e dei tecnici di cui non vedremo mai i nomi sui giornali. La guerra colpisce anche loro, non solo come onda emotiva in arrivo dal fronte. Attori e comprimari, vogliono tutti andare a casa. Però se il sogno che si è avverato sul podio può servire ad attirare l’attenzione pretendono di gridarlo, anche in silenzio.