CARMELO E VITTORIO. Teatro Argentina a Roma. Folla traboccante. Carmelo, io e Maurizio Grande, per un incontro con gli studenti. Carmelo è svogliato, lascia a noi la parola, la gente non gradisce. A un certo punto appare dal nulla Vittorio Gassman, che sfila e si siede in platea. Carmelo non se ne accorge. Lo informo io all’orecchio. È un attimo. Carmelo si scuote, si accende, cambia postura, drizza la schiena, afferra il microfono. Non lo lascerà più. Vittorio è venuto in assetto da guerra. È il Vittorio padre offeso, quello più temibile. Il giorno prima, dice lui, Carmelo non era stato gentile in camerino con suo figlio Alessandro. Vittorio si alza e lo provoca: "Parli, parli, ma scommetto che non sai cos’è un anacoluto". Carmelo replica. Parte tra i due un duello rusticano di botte e risposte, tra lo stupore degli astanti e il giubilo dei giornalisti. Il giorno dopo, cronache enfatiche raccontano l’evento.
I due, Carmelo e Vittorio, avevano un modo tutto loro di amarsi, molto pudico e spesso travestito da ostilità. Ma si amavano, eccome. Anche e soprattutto quando s’incrociavano e s’incalzavano nelle osterie in giro per l’Italia.
Anni dopo, Teatro Olimpico a Roma. In scena l’'Adelchi' di Carmelo Bene. Lo spettacolo è appena finito. Davanti a me, una lunga ombra spiovente. Sembra un lampione curvo dentronni dopo, un cappotto enorme, in piedi che applaude, al buio. Era Vittorio Gassman. Non la vedevo ma la sentivo, al buio, la sua commozione.
L’APPLAUSO più esaltante e commovente che Carmelo avrebbe mai potuto desiderare. Pochi giorni a seguire Vittorio sarebbe morto, mangiato dalla depressione. Carmelo lo ha raggiunto due anni dopo. Non è bastato nessun teatro a contenerli. E non basterà nessuna bara. Avevano molte cose in comune i due. Il cuore scassato, gli abusi alcolici, la faccia mangiata dai tic, il corpo a corpo con la donna e quello più maniaco con la parola. Nel caso di Vittorio, scolpita e declamata alla luna, come fanno i giganti di Rabelais; dalle parti di Carmelo, smontata, sezionata, ingoiata e poi risputata, lirica e grandiosa, ridotta alla gelatina dell’osso e trasformata in canto, come in qualunque lebbrosario di un Oriente stremato. I due avevano un concetto grandioso dello stare al mondo e non amavano gli attori. Avevano questo in comune e ben altro. Carmelo Bene era nato a Campi Salentina l’1 settembre 1937, stesso giorno, stessa ora, stesso minuto, quindici anni dopo, di Vittorio Gassman.
«NE PARLAVAMO quando capitava d’incontrarci e si beveva come pazzi, fino all’alba», mi raccontava Carmelo. «Aveva terrore della morte, Vittorio. Ma non di quella che sarebbe stata. Vittorio era morto da almeno vent’anni. È morto alla sua prima ruga. Ognuno di noi si trascina un’esistenza di troppo. Lui anche due. Di Vittorio non hanno mai capito niente. Troppo intelligente per essere un attore. Senza di lui non avrei mai fatto teatro. M’interessava quel suo furioso darci dentro nel nulla. Scatenava i suoi mezzi straordinari per coltivare l’inattendibilità. Era un fuoriclasse dell’inautentico. Non ha mai creduto a quello che faceva. Da qui il dispiego immane di energia. Lo hanno definito un attore proteiforme. Al contrario, il Gassman dell’Oreste era lo stesso del Sorpasso. Né attore tragico, né comico, ma parodia consapevole del diverso. Era un uomo timidissimo. Che, declamando, chiedeva scusa di esistere. Glielo dissi una volta, al fondo di una delle nostre bevute: “Non puoi accontentarti di essere il migliore dei peggiori, il meglio del peggio, cioè il pessimo”». Questo il ritratto di Vittorio che la notte successiva alla sua morte, Carmelo mi dettò.
Lo spiava puntiglioso da ragazzo. Aveva capito che era lui il modello da smontare e fare a pezzi. Era il suo atto d’amore, demolirlo. I giornali hannno sempre cercato di metterli l’uno contro l’altro, come fossero i Coppi e i Bartali del teatro, e loro ogni tanto si prestavano di malavoglia, salvo poi non dichiararsi il loro amore tutte le volte che potevano. Lo sapevano. Non c’era bisogno di dirselo.
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