Gabriele Moroni
BREMBATE SOPRA (Bergamo)
«NELLE FAVOLE

tutto finisce bene, ma adesso sappiamo cos’è un orco e siamo preoccupati perché l’orco è tra noi». Era umida di commozione la voce di don Corinno Scotti mentre pronunciava l’omelia della messa vespertina. La parrocchiale di Brembate Sopra rigurgitava di gente. Sabato 28 maggio di due anni fa. Yara era stata sepolta da poche ore. La comunità si stringeva attorno a don Corinno, prete missionario, anziano pastore, figura simbolo del paese. Dall’altare, fra parole di dolce consolazione, era venuto quell’avvertimento che oggi appare quasi profetico: l’orco è tra noi.

SUONANO

a distesa le campane di Brembate. Don Corinno è turbato come allora. «No, non sono contento. Quello che hanno arrestato è di qui, una persona normale. Avevo pregato tanto perché non fosse uno di noi». «Uno di noi», perché sarebbe forse più accettabile l’idea di un male non autoctono, che colpisce e torna in una dimensione aliena. Invece Massimo Bossetti ha abitato a Brembate (dove vive ancora un fratello), non ha smesso di frequentare un solarium e un bar sotto i portici, di acquistare i giornali e fare benzina davanti al centro sportivo dove, secondo l’accusa, si sarebbe ‘impadronito’ di Yara.
Per quasi quattro anni ha condotto quella che lui stesso ha definito una vita «ripetitiva», sveglia all’alba, lavoro duro fino a sera interotto solo da una breve refezione, la domenica a messa a Sotto il Monte, la comunione, l’incontro con i genitori e i parenti, le due bambine da accompagnare a dottrina e agli allenamenti delle majorettes. Vita da orco. Nel silenzio pneumatico che evoca una parola, quella che fa sanguinare le orecchie a molti: omertà. «Ma che omertà — s’indigna Diego Locatelli, sindaco di Brembate —, non confondiamo l’indole riservata di questi paesi con l’omertà che nella vicenda di Yara non c’è stata. Al contrario. La gente ha parlato, collaborato, segnalato, dando indicazioni anche infondate, ma sempre in buona fede, per il desiderio di rendersi utile».
I cinque chilometri da Brembate a Mapello sono punteggiati da «Let vest?», «Al conosiet?» («L’hai visto?», «Lo conosci?»), che si rincorrono da lunedì quando i primi tg hanno dato la notizia che un muratore era stato fermato per l’omicidio di Yara. Via Piana Sopra è una strada corta e antica, una cascina con la legnaia, poche case. Quella dei Bossetti è l’ultima, tinteggiata di giallo, linda, fiori e fioriere a profusione, un dondolo, seggioline di vimini, un lavatoio, due lampioncini, il giornale in abbonamento della suocera Adelina abbandonato sull’uscio. Si affaccia un’anziana vicina. «Al conosìè. Lo vedevo andare via la mattina con il furgoncino. Per me è innocente. Poi le cose vanno come devono andare». Il suo nome, signora? «No, ole mìa finì dèt in keste storie» («Non voglio mica finire in queste storie»).

STRADE



ancora imbandierate col bianco e oro del Vaticano dalla beatificazione di Papa Giovanni. Il caso Bossetti è entrato nella quotidiana dialettica dei bar. «Per me — dice uno mentre taglia il mazzo di carte —, se è lui l’ha già fatto altre volte. Qualcuno doveva sapere di Yara. La moglie no, ma sua mamma, la Ester, possibile che non sapesse niente?».