BAKU (Azerbaijan)
SULLE
rive del Caspio non c’è più solo l’odore del petrolio. E la voglia di emergere, insieme alle macchie nere, sta spazzando via ogni residuo di soviet o di integralismo. Tant’è che qui a Baku, Caucaso, frizzante capitale dell’Azerbaijan, grattacieli alla Dubai, boulevard in stile Costa Azzurra e negozi luccicanti di lussuose griffe hanno seppellito i grigi casermoni militari affacciati sulla spiaggia, i popolari palazzoni stalinisti e i mini bazar all’aria aperta. Con tanto di sbalorditivi investimenti immobiliari per costruire ville, centri commerciali e chi più ne ha più ne metta nelle zone della vecchia black city, il distretto dove si estraeva l’oro nero, attività ora trasferita nelle piattaforme sul mare.

UN FRAGOROSO

fiume in piena di cambiamenti, finanziato dal governo vendendo nel mondo le sterminate riserve di petrolio e gas — adesso col Tap l’assalto all’Europa sarà in grande stile — che ha spezzato le catene con il comunismo e che sta spingendo questo popolo fuori dalle sabbie mobili dove era precipitato dopo l’indipendenza dall’Urss, sancita nel 1991.
A Baku i cantieri per le strade, tunnel sotterranei, ristrutturazioni e nuovi alberghi invadono la vita quotidiana, seguendo la linea tracciata dal presidente Ilham Aliyev, figlio dello storico leader Heydar, morto nel 2003 e venerato come un dio nei cartelloni con la sua immagine appesi ovunque. Una linea precisa, che prevede via via di staccare l’ex repubblica sovietica dai pozzi di petrolio, «che prima o poi finirà» ricordano tutti. E così, solo per ridisegnare l’economia, negli ultimi anni, sono stati spesi 140 miliardi di dollari che hanno generato un milione di nuovi posti di lavoro, ridotto il tasso di disoccupazione al 5,1% e il livello di povertà al 6%.
«Siamo asiatici o europei? Non ce lo chiediamo mai», racconta Fuad Agayev, giovane proprietario del ristorante Caravan Saray (Caravanserraglio), incastonato nel cuore della vecchia Baku. Un’eredità del passato, sovrastata dai nuovi simboli della città: le Flame Towers, tre torri di acciaio e vetro, scoppiettanti di uffici e appartamenti, che di notte si illuminano con fiamme e soldati armati di bandiere azere, proiettati sulla facciata con un gioco di luci.
La rivoluzione economica è figlia del business dell’oro nero, in mano alla potentissima Socar, compagnia statale con 80mila dipendenti, che sta mettendo radici in mezzo pianeta e che ha partnership anche con l’italiana Saipem.

SE ALLA




fine del secolo scorso erano stati prodotti solo 5 miliardi di metri cubi di gas, ora l’Azerbaijan ne estrae 27 miliardi e può arrivare a 50: ha le forze per dare del filo da torcere a chiunque sul mercato. D’altra parte, chi comanda punta tutte le sue fiches sui giovani. Le università crescono e ai più bravi il governo paga due anni di studio all’estero per imparare le lingue — l’inglese è diffusissimo — e conoscere altre culture. Insomma, l’epoca del muro è lontana anni luce così come sono sopiti gli integralismi: i musulmani, in maggioranza, convivono senza problemi con le minoranze ortodosse e cattoliche. E di donne col velo non se ne vedono: meglio gli abiti alla moda.
«È come ritrovarsi nell’Italia del boom, negli anni Sessanta: se hai voglia di emergere puoi riuscirci. E velocemente. Non è un pantano» racconta Franco Rizzato, 51 anni, veneziano; si è trasferito a Baku quattro anni fa e con la sua società — Venezia design, nome quasi scontato — offre consulenze nel campo delle costruzioni, affiancando le grandi ditte locali. Con lui lavorano ingegneri e architetti; molti gli italiani con stipendi superiori ai 2mila euro — con 700 euro a Baku si può vivere dignitosamente — più alloggio e benefit. Sono soddisfatti e felici. Il Belpaese, fra l’altro, è amatissimo, i film di Adriano Celentano e Sofia Loren sono popolarissimi e Roma da cinque anni è il primo partner commerciale. Una leva da tirare quella della simpatia e degli investimenti. «Noi abbiamo bisogno di petrolio e gas, loro della nostra qualità e delle nostre innovazioni», nota l’ambasciatore italiano Mario Baldi. Tradotto: avanti, c’è posto. E chissà che le fiamme di Baku non aiutino a riaccendere la ripresa in Italia.