di Nicoletta Magnoni
Bologna, 9 giugno 2013 - È STATA un’operazione lampo e di portata massiccia, tanto da ricostruire l’immagine previdenziale dell’Italia: non più il paese delle pensioni facili, guadagnate in giovane età, e ricche. Al loro posto, rendite posticipate nel tempo, legate a coefficienti di trasformazione avari e a sistemi di calcolo che decurtano gli assegni.

Eppure, la riforma Fornero di fine 2011, che sembrava aver messo la parola fine all’eterno cantiere previdenza al grido di ‘in pensione più tardi e contributivo per tutti’, oggi è un dossier da rivedere e correggere. Ha mostrato le sue crepe con la vicenda degli esodati. Ma ancor più si sta rivelando un boomerang oggi che il lavoro è merce rara: più gli anziani restano in attività, meno giovani potranno conquistare un posto, seppur precario. La sostenibilità dei conti dell’Inps è garantita negli anni, ma la tenuta sociale, in questa fase, lo è molto meno. L’obiettivo è mettere mano alla flessibilità in uscita: il meccanismo Fornero, con una gradualità a tappe forzate, fissa a regime (nel 2018) il pensionamento di vecchiaia di uomini e donne a 66 e 7 mesi e quello anticipato a 42 anni e 10 mesi di contributi. L’asticella è molto in alto e arriva là dove pochi Paesi in Europa si spingono.

COSÌ, il presidente della commissione Lavoro della Camera e ex ministro del Welfare, Cesare Damiano, sta tirando fuori dal suo cassetto la vecchia idea dell’uscita flessibile dal mercato del lavoro, con penalizzazioni o — dipende da che parte la si guarda — incentivi. In un’intervista al nostro giornale l’ha spiegata in questi termini: «Bisognerebbe permettere ai lavoratori con 35 anni di contributi di andare in pensione a 62 anni. Nel contempo si dovrebbe consentire loro di optare per mantenere metà lavoro ottenendo metà pensione. In cambio, si può assumere un giovane a tempo pieno con un contratto di apprendistato».

È una formulazione concreta di quel patto tra padri e figli di cui si sta discutendo negli ultimi tempi. Un altro ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, oggi presidente dell’altra commissione Lavoro, quella del Senato, ci sta ragionando sopra, al momento pare senza particolari preclusioni. E lo stesso Damiano annuncia che la Camerà inizierà il 17 giugno la discussione sulla proposta di flessibilità in uscita. Il versante della flessibilità in entrata, invece, è materia dell’altra riforma Fornero, quella del lavoro, anch’essa in fase di ripensamenti sostanziali.

IL PROBLEMA del pensionamento spostato sempre più in avanti è legato non tanto o non solo all’aumento per tappe dei requisiti di base, ma al meccanismo della speranza di vita: l’Istat aggiorna il calcolo dell’aspettativa di vita e questo ritocco ha un effetto (in termini di mesi addizionali) sui requisiti per andare in pensione, che già sono aumentati. Il prossimo scatto sarà a gennaio 2016, poi dal 2019 lo scalino si alzerà ogni due anni. Per questo, già oggi, nelle tabelle su età e contributi richiesti in termini di anni compare un’aggiunta di mesi, in numero variabile. Questo meccanismo ha cancellato l’altro calendario sul quale avevano fatto i conti i potenziali pensionati degli anni scorsi, cioè quello delle finestre che posticipavano il momento dell’effettivo pensionamento di 12 mesi (18 per i lavoratori autonomi) dal momento in cui si maturavano i requisiti per salutare i colleghi e andare a casa.