Nicola Palma
MILANO, 19 febbraio 2012 - Parla LA da politico consumato, «ma non mi candiderò mai: non sono al di sopra di ogni sospetto». Difende la stagione di Mani Pulite, perché, «seppur con errori ed eccessi, senza quell’inchiesta saremmo finiti come l’Argentina». Si professa innocente, «anche se ho scelto di pagare la mia pena fino all’ultimo giorno».

E rivendica con forza la diversità morale del Pci, «quella ereditata da Berlinguer». Primo Greganti vent’anni dopo Tangentopoli. Per chi ha la memoria corta, ecco un breve curriculum: prima operaio della Fiat, poi membro del Pci a vari livelli, dalla federazione di Torino alla direzione nazionale, senza dimenticare l’organizzazione delle feste dell’Unità. Passato alla storia come Compagno G. o «uomo di marmo». Fuor di metafora, il dirigente che non tirò mai in ballo il partito nel vortice delle mazzette, nonostante cinque mesi di carcere preventivo e tre anni patteggiati per corruzione e finanziamento illecito al Pci-Pds: «Niente di strano — sorride lui — semplicemente non c’era niente da dire: quei soldi erano miei». Oggi Greganti ha 68 anni, la tessera del Pd in tasca e si dedica al volontariato: «In tanti mi chiedono una mano: dicono che il mio nome fa da aggregatore di persone».


Quale nome? Primo Greganti o Compagno G., un eroe per un’intera generazione di ‘compagni’?
«Non mi sono mai sentito un eroe, perché non ho difeso nessuno. E poi, non è vero che Greganti non ha mai parlato: io ai giudici ho raccontato tutto».

E cioè?
«Che quei soldi erano miei, e li avevo sul conto perché lavoravo molto con la Cina. Mai una lira è transitata tra me e il Pci-Pds in maniera irregolare».

E in maniera regolare?
«I soldi per la pubblicità».

Quale pubblicità?
«Quella per le feste, per il giornale, per la radio. Tutto limpido».

E i 621 milioni dei Ferruzzi? Singolare che fosse esattamente la stessa cifra della tangente realmente pagata a Dc e Psi per favorire un appalto Enel?
«Erano soldi per le mie consulenze. E l’ho anche dimostrato con un memoriale inviato alla Procura».

Il caso Itinera e il miliardo nella valigetta?
«Era la caparra per l’acquisto di un immobile del partito».
 

Innocente su tutta la linea. E allora, perché ha patteggiato invece di difendersi fino in fondo?
«Avevo i conti in rosso e un’azienda distrutta: pensi che portai a vivere a casa mia anche due dipendenti cinesi che non sapevano dove andare. Dovevo ricominciare a vivere, anche se feci scrivere nero su bianco che patteggiavo per tornare a lavorare e non perché avevo ammesso la colpa».

Tornasse indietro, lo rifarebbe?
«Sì. La verità è la verità, e va difesa costi quel che costi».

In tanti dicono che il Pci-Pds fu risparmiato da Mani Pulite.
«Neanche per sogno. Oltre a me, finirono in cella dirigenti nazionali come Vittorio Brilli e Renato Pollini. La verità è che a un certo punto cercarono di tirar dentro anche i comunisti per poter dire: ‘Tutti ladri, nessun ladro’. Ma noi eravamo diversi».

Diversi come?
«Innanzitutto, siamo sempre stati all’opposizione, quindi non potevamo fare leggi che favorissero questo o quello. E poi, il Pci aveva la storia di Enrico Berlinguer: ricordo che gli altri partiti ci accusavano di essere eccessivamente moralisti perché i nostri consiglieri comunali chiedevano di inviare in Procura le delibere sospette».

Ma anche il Pci aveva bisogno di soldi, o no?
«Aveva altri canali».

Quali?
«Le feste dell’Unità, ad esempio. E poi, sottoscrizioni e tesseramenti».

E le cooperative rosse?
«Guardi che c’erano anche quelle legate ai repubblicani, ai socialisti e al mondo cattolico. E poi, mi spiega cosa c’è di male se il socio di una cooperativa decide di sostenere il suo partito o di regalargli tante ore di volontariato?».
 

Ma poi le cooperative non volevano qualcosa in cambio?
«Se parliamo di appalti, le dico che negli anni Ottanta due delle prime tre aziende edilizie in Italia erano cooperative».

Quindi era giusto che non fossero discriminate?
«Era lodevole che il partito sostenesse enti senza scopo di lucro».

Vent’anni dopo, come giudica Tangentopoli?
«Fu un’inchiesta giusta, perché ci evitò di finire come l’Argentina. Dall’altro lato, furono commessi errori come il mio e si abusò troppo del carcere: in tanti dissero cose false pur di uscire».

Lei no.
«Non quello che volevano dicessi».

L’Italia ha imparato qualcosa da quella stagione?
«Non mi sembra. È necessario tornare a valori forti».