Trivelle, dietrofront Meloni. La conversione della premier Giorgia

Nel 2016 da leader di FdI sostenne il referendum contro le estrazioni volute da Renzi. Ora che è al governo è cambiato l’atteggiamento anche nei confronti della Ue

Roma, 6 novembre 2022 - La trivellazione in mare è una eccellente cartina di tornasole della politica italiana. Nel 2016 l’attuale presidente del Consiglio si opponeva alla proroga delle concessioni per le trivellazioni in mare su cui si tenne un referendum. Meloni lo faceva per motivazioni politiche, contrapporsi al governo Renzi, e con l’argomento di voler contrastare le lobbies del petrolio. All’epoca il Sì, sostenuto da chi non voleva più le trivellazioni, vinse con l’85%.

Il piano del governo: avanti con le trivelle. Trenta miliardi contro il caro-gas

Oggi il governo Meloni, per fronteggiare la crisi energetica, con l’emendamento sull’estrazione di gas che verrà presentato come emendamento al dI Aiuti ter viene autorizzata l’estrazione da giacimenti nazionali con capacità sopra a 500 milioni metri cubi. Potenzialmente si stima una quantità di 15 miliardi di metri cubi sfruttabili nell’arco di 10 anni. Meloni e il suo partito hanno dunque cambiato idea, come sottolinea Matteo Renzi, presidente del Consiglio ai tempi del referendum 2016 e favorevole alla proroga delle concessioni per trivellare. In politica questo accade spesso, soprattutto quando si governa, e non è un male.

La crisi energetica costringe a percorrere tutte le soluzioni possibili, mentre il cambio di posizione su temi fondamentali sembra la cifra caratterizzante, e per ora vincente, del nuovo premier. Ciò è accaduto rispetto all’Unione Europea, dove Meloni ha stemperato i toni e ha fatto il suo esordio internazionale, così come su molti temi economici proseguiti senza modifiche rispetto al governo Draghi a cui l’attuale capo dell’esecutivo si opponeva. La giravolta, anche radicale, è segno di maturità oltre che di opportunismo politico. Meglio un presidente del Consiglio volubile ma consapevole dell’emergenza che uno rigido e ostaggio dei veti. Dunque bene la scelta del nuovo governo di sfruttare tutto il possibile sul fronte dei giacimenti. Nei prossimi anni si potrà contare di più sull’Adriatico e, verosimilmente, anche sul lavoro di Eni in Africa e in Libia. Tuttavia, l’aumento del volume dell’estrazione varato dall’esecutivo rischia di scontrarsi con altri problemi burocratici, che affliggono il sistema italiano.

Come riporta Il Sole 24 ore, sono fermi più di metà dei 1.298 pozzi che raggiungono in profondità i giacimenti nazionali di gas o di petrolio. I 752 pozzi chiusi hanno il rubinetto serrato per diverse ragioni. Perché il giacimento è quasi esaurito; perché lo sfruttamento è diventato troppo costoso rispetto alla resa; perché bisogna investire per rinnovare l’impianto. Oppure molto spesso il pozzo è chiuso perché lo vietano le norme, come quella che nel 2016 aveva lucchettato i giacimenti di gas e di petrolio nelle acque territoriali entro le 12 miglia dalla costa, cioè 22,2 chilometri al largo della costa.

Il braccio di ferro sui giacimenti nazionali propone posizioni contraddittorie: il governo sollecita la riapertura dei giacimenti, ma nello stesso momento fa ricorso contro l’arbitrato internazionale che aveva condannato a 190 milioni di danni l’Italia per lo stop imposto nel 2016 dal governo al giacimento Ombrina, nell’Adriatico di fronte a Ortona. Si riapre, e al tempo stesso si ricorre contro le sanzioni per la chiusura. Insomma, al solito lo Stato italiano si rivela un puzzle pieno di contraddizioni, regolamenti diversi, posizioni locali peculiari. Vedremo se la svolta di Meloni sui giacimenti riuscirà a segnare un cambio di paradigma corale, con governo, territori, imprese che remano tutti insieme nella stessa direzione. In questo caso, infatti, la coerenza dei vari enti è quanto mai necessaria.