Primarie Pd: Bonaccini, Schlein e il nuovo corso. "Due idee di partito. Ticket? Follia"

Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government: la differenza questa volta è netta. "Da un lato c’è il buon governo, dall’altro una sinistra post-moderna. Impossibile mescolarli"

"Il Pd , attraverso le primarie, può finalmente uscire da un limbo. Ma, più che lo strumento, quello che in prospettiva sarà più rilevante e decisivo riguarda la capacità di chi vince di dare un profilo definito al partito e di avviare un’iniziativa politica forte che sappia andare oltre il residuo elettorato tradizionale composto dai ceti intellettuali urbani. Di non confermarsi, insomma, come il partito del Freccia Rossa, come è stato anche chiamato. Il che non potrebbe accadere con una sorta di ticket consociativo".

Sondaggi politici: sul Pd c'è l'effetto primarie

Stefano Bonaccini ed Elly Schlein
Stefano Bonaccini ed Elly Schlein

È netta e secca l’analisi pre-voto di Giovanni Orsina, storico e Direttore della Luiss School of Government.

Le primarie possono ridare un po’ di vitalità politica al Pd?

"Un po’ attirano l’attenzione, perché rimettono il Pd al centro del dibattito mediatico, anche se bisogna dire che si tratta di un’attenzione sempre più limitata agli addetti ai lavori. Un po’ di visibilità insomma la danno".

Ma?

"Ma la cosa più significativa per il Pd è quella di poter uscire da questo limbo. Dopo le primarie, insomma, ci sarà un segretario o una segretaria in grado di imprimere il proprio segno e di portare il partito da qualche parte. E non è poco".

La partecipazione ai gazebo, però, sarà un indice dell’appeal che il partito ancora ha.

"Certamente. È chiaro che quello è uno degli indicatori sui quali puntiamo l’attenzione. Si tratta di capire se c’è ancora un po’ di vitalità nell’elettorato tradizionale del partito o se anche tra gli elettori prevale la perdita di entusiasmo. È evidente che se dovesse uscire una partecipazione molto bassa, sarebbe un colpo duro per il partito, a prescindere da chi verrà scelto".

Veniamo ai candidati: che partito potrà essere con Stefano Bonaccini o con Elly Schlein?

"Bonaccini è l’esponente della tradizione del partito democratico dei territori, che possiamo per certi versi far rimontare ai tempi del Pci di Giuseppe Dozza: la grande storia del partito radicato nelle zone rosse che amministra bene. Questo è il suo punto di forza, ma deve pure essere consapevole di star ereditando l’ultima propaggine di questa tradizione, che si è fatta sempre più debole. La sua è l’idea del partito che riparte dagli amministratori locali, dai tanti che nel nome del Pd amministrano bene in giro per l’Italia. Bisogna capire come tutto questo si traduce in una proposta politica, perché come diceva Salvador De Maradiaga "asfaltar no es gubernar", una cosa è amministrare e un’altra è governare".

Mentre che partito sarebbe quello di Schlein?

"A me pare esprimere soprattutto una sinistra – per così dire – post-moderna, dei diritti individuali e dell’ambiente. Una sinistra che ha zone di radicamento territoriale e ambientale molto circoscritte: i ceti urbani cosmopoliti che già sono la base tradizionale del Pd ma non bastano per vincere le elezioni, perché il grosso del Paese è altrove. Io ho anche qualche dubbio sul fatto che intercetti l’elettorato giovanile o femminile, se non per minoranze molto attive, ma pur sempre minoranze. È molto nuova, questo sì, e questo può avere un impatto".

E se, come qualcuno ipotizza, si arrivasse a un ticket tra i due? Sarebbe un esito da consociativismo correntizio?

"Per carità, il povero asino di Buridano, è morto di fame per non saper scegliere fra due cumuli di fieno. È lunare anche solo ipotizzarlo. Il partito deve prendere una linea netta, deve darsi un’identità definita. Solo così può allargarsi oltre i ceti di riferimento tradizionali. Poi capisco che è molto difficile perché la sinistra è spaccata in due come una mela dalla frattura sociale e culturale cui si accennava prima. Ma la sola via per chiuderla è una grande iniziativa politica chiara, perché altrimenti si rimane nel guado e nell’incertezza. E non funziona. Tanto più perché alla sinistra e alla destra del Pd ci sono due partiti che entrano in queste fratture, le sollecitano e le sfruttano politicamente".

La priorità, insomma, non è solo tenere insieme quello che c’è, ma andare oltre?

"La nuova frattura elettorale, di classe, geografica, sociale e cognitiva del XXI secolo, ampiamente tematizzata, che riguarda l’Italia, come la Francia, gli Usa, l’Inghilterra, è quella tra i ceti cosmopoliti vincenti della globalizzazione, che votano solitamente a sinistra, e quelli periferici geograficamente e socialmente che votano altrove, non sempre a destra. Ebbene, il Pd è oggi il partito dei ceti intellettuali urbani, il partito del Freccia Rossa (Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano). Il nodo è oggi come tenere quelli che ha ma che non bastano e prendere i consensi anche di quelli che stanno fuori. Un po’ come la Dc nel XX secolo, che teneva insieme proletari e borghesi grazie al riferimento cattolico che sovrastava la divisione di classe. Per farlo oggi, serve un nuovo profilo-principio forte".

Rimane il rischio scissione?

"È una possibilità. Tutto si basa sulla capacità di chi vince di dare una vera spinta, ma se questa spinta non dovesse arrivare non è impossibile che i perdenti decidano di andarsene. Una svolta del genere implicherebbe un processo rifondativo radicale non solo del Pd ma dell’intero campo dell’opposizione. Ma sancirebbe anche il consolidamento della frattura di cui ho parlato, con la condanna di tutti a una lunga opposizione".