{{IMG_SX}}Milano, 25 novembre 2007 - LA CINA SARÀ pure vicina, come recitava il titolo di un vecchio (ha quarant’anni) film di Marco Bellocchio, ma, di sicuro, sta allontanando il Dalai Lama da Milano. Le pressioni diplomatiche della Repubblica popolare — che, ribadendo la negazione di qualsiasi forma di indipendenza anche culturale del Tibet, ha fatto intendere alla Farnesina di non gradire la tre-giorni (7-8-9 dicembre) meneghina di Sua Santità Tenzin Gyatso — stanno, infatti, scuotendo non solo Governo e Parlamento, ma anche la giunta Moratti. Preoccupata di suscitare le ire della Cina ricevendo in forma ufficiale l’autorità religiosa buddhista, Letizia Moratti s’è premurata, del resto, di impartire secche disposizioni tese a evitare l’incontro ravvicinato con il Premio Nobel per la pace.

 

MA QUALI valutazioni impediscono al sindaco di accogliere a braccia aperte il XIV Dalai Lama in esilio dal ’59 come hanno fatto il 23 settembre in Cancelleria a Berlino Angela Merkel («Decido io chi ricevere e dove») e il 16 ottobre George W. Bush? Beh, la Moratti teme che le ritorsioni della Cina sulle imprese italiane, paventate pure da Massimo D’Alema, finiscano per estendersi alla candidatura di Milano a sede dell’Expo 2015. A tre mesi dalla riunione plenaria convocata a Parigi dal Bie — l’organismo internazionale che assegna la kermesse ritenuta da Comune, Provincia e Regione «un volano per l’economia» —, il sindaco non vuole, insomma, mettere a repentaglio la ricostruzione dei rapporti amichevoli con l’ex Celeste Impero. Che, come si ricorderà, erano stati spazzati via dai tafferugli scoppiati al Quartiere Sarpi, la Chinatown ambrosiana, il 12 aprile scorso a seguito del fermo operato dai vigili urbani di una emigrata dalla Repubblica popolare andata in escandescenze per una multa. Due missioni istituzionali a Pechino del sindaco ricucirono quello strappo che, ora, la visita di Sua Santità rischia di riaprire. Con la conseguenza che i rappresentanti della Cina in seno al Bie potrebbero vendicarsi a marzo dell’accoglienza concessa al Dalai Lama privilegiando la chance di Smirne per l’Expo 2015 e trascinando diversi Paesi non allineati nel voto contrario a Milano.

 

LE POLEMICHE già roventi sotto la Madonnina, con l’assessore alla Cultura, Vittorio Sgarbi, che invita la Moratti a rivedere la sua posizione, e con alcuni primi cittadini dell’hinterland — capeggiati da quello di Cologno Monzese —, coalizzati per offrire ospitalità al Premio Nobel, vanno considerate, comunque, una parte delle tensioni vissute a Torino, dove Sua Santità si recherà il 16 dicembre («Il Tibet incarna l’esempio più evidente di un problema di rispetto dei diritti umani», ha scandito il presidente del Consiglio regionale, Davide Gariglio), e nella Capitale. I piedi di piombo con i quali Romano Prodi e D’Alema si sono inoltrati lungo «La via della pace interiore» stanno, difatti, provocando reazioni a catena e, per di più, bipartisan. 165 deputati hanno già sottoscritto un documento, non firmato da Wladimir Luxuria e Titti De Simone (Prc), in cui l’intergruppo per il Tibet sollecita Fausto Bertinotti a dare la parola in aula al Dalai Lama. «Ci aspettiamo — ha spiegato l’azzurro Benedetto Della Vedova — che il presidente valuti la necessità di essere vicini alla causa tibetana». La stessa richiesta è stata fatta girare a Palazzo Madama dall’azzurro Lucio Malan, che vuole raccogliere le firme da inviare al presidente Marini.

 

LA PRUDENZA del Governo viene evidenziata da una nota del ministro degli Affari regionali, Linda Lanzillotta, che afferma come «le Regioni possono svolgere relazioni internazionali nell’ambito delle loro competenze, ma non esercitare una politica estera autonoma rispetto allo Stato». E cautela anche in Vaticano, dov’era ventilata una visita il 13 dicembre. «Non mi risulta in nessun modo. Non è inserito nel programma, secondo me non ci sarà» si affretta a dire il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi.