PIOMBINO, 18 luglio 2010 - TORNANDO a casa Francesca, protagonista del libro Acciaio, «seguiva con gli occhi il profilo sdentato della fabbrica pensando che, come il Colosseo, anche l’altoforno nel giro di un decennio se lo sarebbero preso i gatti». Le rovine al posto delle Acciaierie. Anche per questa prospettiva, mezza Piombino si era rivoltata contro la scrittrice, Silvia Avallone, accusandola di «non raccontare la città vera». Oggi, qualche mese dopo l’uscita del libro, se un oligarca russo non versa entro fine mese almeno 150 milioni di euro alle banche, le Acciaiere Lucchini potrebbero dichiarare default. E lo scenario di Acciaio, non più un pensiero di carta ma una tragica realtà. Vengono i brividi.

LA FINE dell’acciaio a Piombino, con un Colosseo di ruggine dove oggi fuma l’Afo4, sembra davvero un’enormità. Nonostante i ridimensionamenti, lo stabilimento rappresenta ancora una realtà industriale strategica per il Centr’Italia, producendo da solo il 30% del Pil della provincia di Livorno e dando fumo e lavoro a 2.142 dipendenti che, con l’indotto, superano i 4.000. Anche per per questo nessuno qui sembra credere alla chiusura. «Una soluzione la si troverà, è sempre successo», il pensiero prevalente. Solo che quando padrone era lo Stato, potevano cambiare i nomi alla portineria (Ilva, Italsider, Deltasider) ma nella sostanza niente mutava. Adesso che dal ’95 il padrone è un privato, il nome resta lo stesso (‘Acciaiere Lucchini’) ma tutto può cambiare.

IL SIGNORE dell’acciaio oggi è un ex operaio russo di 44 anni, Alexei Mordashov, indecentemente ricco come lo sono gli oligarchi nati sul disfacimento dell’Urss. Al 18° posto secondo Forbes fra gli uomini più ricchi del pianeta, Mordashov rappresenta insieme ricchezza e inafferrabilità. «Alla Russia con dolore», titolò un quotidiano al passaggio di consegne col vecchio Lucchini nel 2005. Nonostante ciò, Mordashov si presentò bene. «Al primo incontro ci disse: «In Russia la cosa che ci sta più a cuore è la condizione dei lavoratori» racconta Fabrizio Toninelli della Uilm. E davvero per qualche anno le cose andarono bene.
Solo che le Acciaierie di Piombino sono come un colosso che, per reggersi in piedi, ha bisogno di correre continuamente. Spiega Luciano Gabrielli, segretario Fiom: «Se la produzione annuale supera il milione e 800 mila tonnellate la fabbrica fa grossi guadagni, altrimenti...». Altrimenti sono deficit da voragine. Non c’è da stupirsi, insomma, se con la crisi il gruppo Severstal che fa capo a Mordashov si sia riempito di debiti: 780 milioni di euro. Addio sogni di gloria: «Vendo tutto», ha annunciato Alexey che, qualche giorno fa, con un’operazione spericolata, ha acquisito personalmente le Acciaierie per un euro e 54 centesimi, scorporandole dal gruppo. «O presenti un piano industriale entro luglio — l’aut aut delle banche di fronte all’ operazione — o a ottobre chiudiamo i rubinetti».

IN SOSTANZA: o Mordashov ricapitalizza o 4.000 persone si ritroveranno senza stipendio. «Ma si può davvero immaginare un territorio desertificato dall’occupazione senza che nessuno richiami alle responsabilità il proprietario, che non può agire come se fosse in una provincia caucasica?», ha gridato Giuseppe Bartoletti della Cgil. Già ma come richiamare alle responsabilità un oligarca russo distante dai problemi sociali italiani come la terra da Alfa Centauri?
Così Piombino, con le sue fabbriche passate tutte in mano agli stranieri (la Dalmine agli argentini di Tenaris, la Magona ai franco-indiani di Arcelor-Mittel) diventa senza volerlo il paradigma tragico dei Tempi Nuovi: come difendere i diritti di chi lavora quando la globalizzazione ha svalutato il prezzo della fatica e come bussola ha solo il guadagno e non le ricadute sociali di questo?
Guardi a Piombino e pensi con angoscia al futuro dell’Italia.