Marina di Pietrasanta, 14 aprile 2012 - Il 6 LUGLIO prossimo compie 96 anni. L’idea è quella di fargli ripercorrere quasi secolo di Storia d’Italia intrecciato con la sua vita. Ingenua! Come se non lo conoscessi. Per fare qualcosa del genere ci vuole un libro, due, dieci volumi, non lo spazio di un’intervista. Perché non solo i quasi 96 anni di Manlio Cancogni sono densi di vita, di amicizie, di storie, di libri, di articoli, di avventure e naturalmente di Storia vissuta. Ma anche perché lo scrittore da sempre legato a Marina di Pietrasanta (anche se nato per caso a Bologna nel 1916 e vissuto da giovane a Roma) ha una memoria formidabile: ricorda ogni particolare, ogni nome, ogni data. Una sfida vivente a tutti gli hard-disk del mondo, lui che il computer lo ha comprato di recente e solo per vedere con la web-cam i nipotini che abitano a New York (computer che in realtà viene ‘maneggiato’ da Rori, la moglie-farfalla che è accanto a lui da oltre settanta anni).
Dunque quello che potrò riportare è soltanto l’infinitesima parte di ciò che mi ha raccontato nel recente pomeriggio trascorso a casa sua.
Professore, la Storia d’Italia e la sua storia. Da dove cominciamo?
"Sono nato durante la battaglia di Verdun ma questo naturalmente non lo ricordo. Possiamo partire da quando avevo sei anni. Non ho ricordi precedenti precisi. La Marcia su Roma: il 28 ottobre del ’22 era un giorno piovoso, al mattino. Già da alcuni giorni mia sorella, di poco più grande di me, parlava di ‘rivoluzione’. Ero molto curioso. Sentimmo delle grida e subito mi precipitai con gli altri alle finestre. C’erano uomini con una specie di divisa, in realtà era molto approssimativa. Fermavano i passanti, puntavano i fucili alle finestre. Ricordo che presero il vinaio che aveva il negozio vicino a casa nostra, il povero sor Gino, con fama di socialista. Un viso pallido rotondo, in quel momento spaventato. Lo legarono, lo portarono via. E poi fecero razzia del vino e nel pomeriggio, quando uscimmo, era uscito anche il sole, vedemmo molti di quei tipi seduti o sdraiati sul marciapiede ubriachi. Ricordo di avere incontrato davanti al portone una vecchia grassa, orribile, con il distintivo del fascio: la prima esperienza del conformismo che poi sarebbe dilagato. Da quel momento divenni antifascista. Non fui mai Balilla, non andavo alle adunate. Resistetti fino ai sedici anni poi cedetti. Mi iscrissi agli avanguardisti. Non perché avessi cambiato idea, ma per puro opportunismo: amavo lo sport e senza tessera tutto era complicato, venivo tenuto fuori. Mi iscrissi infatti all’Avanguardia sciatori. Ma era soprattutto al calcio che miravo. Al Tasso, il liceo romano che frequentavo io c’erano anche Vittorio e Bruno, i figli di Mussolini. Due bravi ragazzi, non si davano arie, volevano essere come gli altri, erano davvero una famiglia frugale i Mussolini, nonostante tutto. Vivevano a Villa Torlonia dove al posto del vecchio parco dei tornei, con giostra ecc, i ragazzi avevano fatto un bel campo da calcio, un po’ più piccolo del regolamentare, infatti giocavamo nove contro nove. Nel ’32 organizzarono il Torneo della ‘Penna dei Ragazzi’, che era il giornale scolastico. Dieci squadre, io ero nella Virtus, i fratelli Mussolini nella Tiber. In realtà non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di tessera, il fascismo era un regime che lasciava molte scappatoie. Vittorio si occupava di cinema, poi ingrassò molto... lo rividi per caso nel ’62 a Santiago del Cile. Io ero lì per i Campionati del Mondo, come giornalista, lui viveva a Buenos Aires ed era venuto come spettatore. Mi riconobbe, fu gentile. Non se la passava molto bene".
Passiamo alla Seconda guerra mondiale.
"Ero ferocemente anti-italiano, ma non solo io, tanti intellettuali come Montale, Gadda, molti altri desideravano la sconfitta dell’Italia e di Mussolini che si era alleato a quell’orrendo personaggio che era Hitler. Io seguivo con temperamento interventista anche se sarei voluto essere dall’altra parte. E’ incredibile ma quando ripenso alla mia vita vedo gli anni della guerra come quelli in cui ho vissuto più intensamente, appassionatamente. Forse non è un caso se fu proprio in quel periodo che cominciai a scrivere. Fui richiamato nel ’41, mi mandarono in Grecia, o meglio in Albania, a circa sessanta chilometri dal confine, dove ormai si era ritirato il fronte. In tempo per quella che doveva essere la grande controffensiva e per la quale si palesò il Duce in persona, a tirare il primo colpo di cannone. In realtà non si guadagnò un metro, forse ne perdemmo. La zona era molto aspra, i monti – qui Cancogni me li nomina uno ad uno, cima per cima – bellissimi, un paesaggio straordinario che riuscivo ad apprezzare nonostante fossi oppresso dal pensiero di essere ucciso. Io mi salvai ma fu un massacro. Moltissimi dei miei compagni uccisi – me ne nomina diversi, con grado e provenienza – io invece mi ammalai di pleurite, mi ricoverarono e poi mi riportarono in Italia, all’ospedale di Prato".
E qui si mise in moto il destino.
"Venne a trovarmi mio zio Battista da Pietrasanta, zio da parte di padre. Tornando a casa sull’autobus incontrò un altro zio, Beppe, materno, con cui la famiglia aveva rotto i rapporti. A zio Beppe dispiacque di sapermi ammalato, mi scrisse per chiedermi se poteva venire a trovarmi e io risposi: stanno per dimettermi, torno in Versilia per la convalescenza, vengo io a trovarti. Zio Beppe viveva a Mommio ma aveva anche una villa qui a Fiumetto. Lo raggiunsi lì. Era estate, mi portò al Bagno Rorò dove andava lui e dove aveva amicizie tra cui la famiglia fiorentina Vittori con tre figlie. Una di questa era Ror". Mi indica la moglie, lei abbassa gli occhi provando ancora un tremore timido.
E come le dichiarò il suo amore lei che è così poco espansivo?
"Andammo in gruppo sulle Apuane, una memorabile passeggiata al Matanna. Fu lì che guardandola salire capii che era la donna della mia vita. Al ritorno riprendemmo le biciclette e facemmo in modo di restare indietro. Poi ci fermammo vicino a Pietrasanta e io le presi la mano e dissi qualcosa di stupido come “Sono felice”. Di lì a poco ci fidanzammo. Lei aveva diciassette anni e mezzo, io venticinque. Insegnavo a Sarzana e lei andava a scuola a Firenze. La raggiungevo la domenica e il lunedì, che avevo libero, andavo a prenderla a scuola!".
Poi con il solito piglio da falso cinico Cancogni aggiunge:
"Era magnifico perché sua mamma per il ritorno mi preparava due fette di pane con la cotoletta e due fette di pane con il prosciutto. Loro avevano la fattoria, facevano il pane, le fette erano lunghe e io mangiavo in treno quelle delizie con l’invidia di tutti quelli che erano nello scompartimento perché quelli erano tempi di fame!".
E il dopoguerra?
"Il momento del rigore e dell’orgoglio è stata l’Italia di De Gasperi. La grande ripresa. Lì l’Italia e gli italiani hanno mostrato tutte le loro migliori doti e questo fino agli inizi degli anni Sessanta. Con il boom economico si è raggiunto il benessere ma è cominciata anche la parabola discendente dei valori. Ancora la scontiamo. E togliamoci dalla testa che questa crisi in cui siamo sprofondati passi: abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sarà una crisi lunghissima e la politica si dovrà adattare. Anche il lusso di certe battaglie di idee non si accorda già più con le necessità in cui ci troviamo. Forse sarà necessario rifarsi a modelli come De Gaulle o Churchill, da sempre i miei preferiti".
Berlusconi potrebbe riprendere in mano la situazione?
"No, ormai lui è finito. Ha avuto successo perché rappresentava l’antipolitica e c’era in Italia, a metà degli anni Novanta, una classe politica screditata. E’ apparso lui, si è presentato come un uomo d’affari e ha stravinto. Poi però in meno di vent’anni ci siamo trovati punto e a capo. La classe politica screditata più che mai, i partiti rifiutati da tutti. Berlusconi ormai è uno come gli altri, fuori. Si limiterà a cantare se ancora desidera un palcoscenico".
Monti è la soluzione?
"Indubbiamente si tratta di una soluzione anomala se la osserviamo dal punto di vista delle regole della democrazia: un po’ imbavagliata, non c’è dubbio. Ma chi se ne importa, verrebbe da dire. Io spero che Monti arrivi al 2013 perché non c’è nessun altro, tra i politici, che possa salvare l’Italia. Ammesso che ci si riesca".
Della seconda Repubblica non si salva nessuno?
"No. Bossi è finito e finito male. E gli altri chi sono? Gente usurata come Casini, vangatori come Di Pietro, controfigure come Alfano... E la sinistra che si fa tante illusioni ma che non ha neanche un uomo presentabile. Se fossero intelligenti presenterebbero come candidato premier la Finocchiaro, donna di prim’ordine. Ma intelligenti non sono".
Bersani?
"Ma per carità!".
D’Alema?
"Uh, trombatissimo!".
Rutelli?
"Un perdente".
Fini?
"E’ il più abile politicamente ma ha avuto alcuni incidenti di percorso che la gente non dimentica, uno dei quali essendo ancora al suo fianco... e comunque è il suo passato che gli sbarra la strada. Non può andare oltre, non ha avvenire".
E allora?
"Intanto abbiamo l’accoppiata Napolitano-Monti che è già un terno al lotto per l’Italia. Per il dopo, penso che Monti diventerà presidente della Repubblica e farà fare una lista tecnica con a capo Draghi, e questa lista tecnica stravincerà, sarà un plebiscito. Sarà un governo para-democratico, che lascia tutte le libertà, ma con una maggioranza tale da permettergli di essere anche autoritario oltre che autorevole. E la gente lo accetterà perché non ne può più di questo armeggiare dei politici al solo scopo di avere il diritto a stare al potere. E sono sicuro che gli italiani si troveranno benissimo".
Ma il difetto di Monti quale può essere?
"Il difetto è che si sta innamorando di se stesso. Questo punto debole, se non tenuto sotto controllo, potrebbe essergli fatale e allora... addio Italia".
Al tempo di Giovanni Paolo II lei mi disse che avrebbe dovuto essere lui a guidare l’Italia.
"Gli ho baciato l’anello, ero e sono innamorato di lui. Stimo anche Ratzinger, è un tedesco dolce, con grande fede. Ma non è Woytjla, lo sappiamo".
Lei nei mesi scorsi è stato male, quattro attacchi di cuore uno dietro l’altro... tutto risolto per fortuna sua e nostra, ma ha avuto paura di morire?
"Io ho sempre avuto paura di morire! Fin da bambino. Camminavo per strada con una mano sul cuore per assicurarmi che continuasse a battere".
L’ha aiutato la fede anche se nella sua vita ha avutoo alti e bassi.
"Sono stato credente da giovane, poi afflitto dal dubbio, poi torturato dal desiderio di non essere afflitto dal dubbio. Poi sono tornato, dopo la morte di mia figlia, a una fede praticante".
E dunque che cosa è per lei la morte?
Riflette. “Si rientra in seno all’Essere. Forse è una spiegazione parmenidea ma non una visione panteistica: l’Essere è ciò che è eterno, crea l’esistente e poi lo riassorbe in sé. Del resto sono cristiano ma sono anche cartesiano”.
Esistono secondo lei Paradiso e Inferno?
"L’Inferno è il non essere, forse. Ma è una domanda che mi faccio da tutta la vita e non ho risposta. Di sicuro non credo nel ‘fare’ laico: hai il tuo tempo su questa Terra, usalo al meglio e poi sparisci. No, queste cose mi fanno ridere. Io sono per la trascendenza. Non a caso non sono mai stato crociano o comunque storicista. Allora meglio il materialismo". 
Croce non le è mai piaciuto?
"Durante il fascismo c’erano il Duce e il contro-Duce, che era Croce. In quel periodo non lo amavo. Poi dopo la guerra è stato abbandonato da tutti e è allora che ho sentito un grande rispetto per lui. Mi dispiacque quando morì, neppure i suoi discepoli più fedeli, a parte qualche raro caso, hanno avuto il coraggio di riconoscere quanto gli dovevano. Fu emarginato: ha pagato più lui da liberale anti-fascista che tanti fascisti con tessera poi riciclatisi in tutti i partiti, moltissimi nel Pci. E comunque è stato l’ultimo vero grande intellettuale italiano. Dopo di lui la cultura è stata il festival della fregnaccia irreggimentata".
Cioè?
"Si sa, gli intellettuali italiani hanno bisogno di fare branco. Nel dopoguerra erano tutti marxisti. Poi tutti fenomenologisti, poi tutti imbecilli...".
Ma lei ha un elenco del cuore che si salva.
"Non è un elenco molto lungo. Nell’ordine direi: Pea, Tozzi, Comisso, Bartolini, Tobino, Bilenchi, Cassola. Sì, lo so, c’è molta Toscana, ma per me sono i più grandi. Tra i poeti invece Saba, Ungaretti, Montale, Caproni, Betocchi (non capito nella sua grandezza) e Giotti che in pochissimi sanno chi sia, eppure è un grande. Virgilio Giotti, triestino come Saba, scriveva in dialetto, ma si capisce tutto, senti qua:
La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente’
‘sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘ un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva".
Manlio Cancogni mi recita così, a memoria, in un improbabile eppure commovente triestino, altre due lunghe poesie di Giotti, modulando la voce quale attore, alzando il volto magro e arguto verso la luce che viene dal mare.
 

Rossella Martina