Per approfondire:
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Roma, 5 marzo 2022 - Se il male è invisibile, la paura è più grande. E fu davvero grandissima in quell’aprile del 1986 quando scoprimmo che – 23 minuti e 45 secondi dopo l’una, nella notte tra venerdì 25 e sabato 26 – era esploso il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, Paese satellite dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss), liberando una nube 400 volte più radioattiva di quella che aveva cancellato la vita a Hiroshima (6 agosto 1945, ore 8,15). Una nube talmente grande da contaminare tutta l’Europa. E da lasciare, in chi visse quei giorni angosciosi, ricordi indelebili, improvvisamente riaffiorati con l’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, ancora in Ucraina, ora democrazia indipendente. Ma, ieri come oggi, sotto il giogo di un figlio dell’Urss, l’ex tenente colonnello del Kgb (Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti ovvero Comitato per la Sicurezza dello Stato) Vladimir Vladimirovič Putin, 69 anni, presidente della Federazione russa. Nel 1986 internet non esisteva. Non c’era, quindi, il tam tam dei social network. E l’unica Tv a ciclo continuo, la Cnn, era per i più invisibile. Soprattutto, la censura regnava sovrana in Russia e in tutti i territori sottomessi. Così Mosca tacque. Per giorni. E, forse, avrebbe taciuto per sempre se non fosse partito l’allarme dalla seconda più grande centrale nucleare della Svezia, a Forsmark. Alle 9,30 di lunedì 28 aprile, infatti, un ingegnere scoprì di avere le scarpe radioattive. Cominciò subito la ricerca della fonte. E un laboratorio di ricerca nucleare in Danimarca la localizzò a 2.441 chilometri di distanza da Forsmark, nella città ucraina di Chernobyl. Guerra Ucraina: cosa succede se Zelensky viene catturato o ucciso Chernobyl: qual è il rischio reale? Tanti falsi allarmi, una vera minaccia L’Italia seppe solo la mattina del 30 aprile. Fu il Centro Comunitario di Ricerca di Ispra ...
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