{{IMG_SX}}COMO — IL NOME di Demetrio Latella, collegato allo stralcio di indagine sul rapimento di Cristina Mazzotti condotto dalla Dda di Torino, aggiunge solo un tassello alla ricostruzione di un fatto che venne chiuso senza dare risposta a tutte le domande, ma soprattutto senza identificare tutti i suoi protagonisti. Come appunto quel piccolo gruppetto di tre, forse quattro uomini, che la sera del 26 giugno 1975 fermò la Mini su cui era Cristina e la prese con sé. La riapertura di questo filone, determinata dall’identificazione dell’impronta trovata sul parabrezza dell’auto trentatré anni fa, a mai attribuita a nessuno degli arrestati fino alla rivelazione dell’Afis di Roma, ha implicitamente costretto a cercare di risalire anche agli altri tre componenti del gruppo, anche se da questo punto di vista non ci sarebbero ulteriori elementi, tali da alimentare la possibilità di estendere la rosa delle accuse.

L’UNICO interrogato dal pubblico ministero Oneglio Dodero, della procura distrettuale antimafia di Torino, è appunto Latella, sentito quasi un anno fa quando gli venne recapitato l’avviso di garanzia che lo metteva al corrente di essere al centro di questa evoluzione dell’indagine. Si trova in regime di semilibertà da un paio di anni, dopo essere stato processato nel 1988 e condannato a due ergastoli, esattamente la richiesta del pubblico ministero Francesco Di Maggio, al termine del processo milanese al clan di Epaminonda e dei suoi «indiani», la banda armata a cui vennero attribuiti quarantaquattro omicidi. «Luciano», questo il soprannome di Latella negli anni Settanta, è pronto a ricostruirsi un’esistenza dopo vent’anni di carcere, mentre attende di sapere a quale destino andrà incontro il fascicolo che ora porta il suo nome.

LA VALUTAZIONE su un’eventuale prescrizione del reato è infatti d’obbligo a distanza di trentatré anni dai fatti, e tutto si muove sul filo del titolo di reato che verrà qualificato per il ruolo che gli viene attribuito. Nessun limite di tempo esiste invece per la ricostruzione di una verità che, ancora oggi, merita tutta l’attenzione che si lega al dramma di quei fatti e di quell’epoca, alla devastazione e al dolore consumati in un attimo e mai più cancellati.

AL SENSO di colpa che da allora si trascina per chi c’era e non ha potuto fare nulla, come i due amici di Cristina: Carlo che guidava l’auto di ritorno da una festa; Emanuela che li accompagnava.

DUE RAGAZZI di diciotto anni che hanno speso il resto della vita a cercare di lasciarsi alla spalle ciò che hanno vissuto per pochi minuti, e che forse mai ci sono riusciti. Di quella banda che programmò e organizzò il rapimento di Cristina Mazzotti vennero identificati quasi tutti. Le indagini riuscirono a ricostruire i ruoli e il livello di partecipazione, la sentenza dispensò condanne dai vent’anni all’ergastolo, ma di tutti questi soggetti si sono progressivamente perse le tracce, anche se è plausibile pensare che, come Latella, molti siano entrati in regimi di detenzione alternativi, o che comunque siano arrivati a fine pena.

NEL 1991 due componenti della banda tornarono a far parlare di sé: Loredana Petroncini, condannata a 23 anni, e Giuliano Angelini, che invece andò incontro all’ergastolo, diventati marito e moglie dopo l’arresto, riuscirono a evadere durante un permesso premio concesso in virtù del loro comportamento modello. Colpiti da un ordine di cattura internazionale, vennero rintracciati rispettivamente in Francia e in Italia. Nessuna delle persone individuate e arrestate dopo la morte di Cristina si spese mai per chiudere il cerchio sui complici non identificati, e chi allora riuscì a sottrarsi all’arresto, come gli uomini che viaggiavano sulla Giulia e sulla 125 incaricati di prendere la ragazza mentre tornava a casa, non fu chiamato a rispondere del delitto.