Governo, partitocrazia di ritorno

CARO direttore, sembra che la montagna sovranista, aggettivo di per sé rispettabile, abbia partorito un topolino partitocratico. Se il capo dello Stato non avrà obiezioni, alla presidenza del Consiglio andrà Conte. Ma non Paolo, Giuseppe, un professore di diritto. In ogni caso, usando il titolo di una celebre canzone del più noto cantautore, "una faccia in prestito". Una faccia credibile prestata a due leader di partito in cerca di credibilità. Siamo così passati dall’invocazione di "un premier eletto dal popolo" all’accettazione di un premier tecnico non votato da nessuno analogo a quello che aveva in mente Sergio Mattarella quando ipotizzava la nascita di un governo presunto "neutrale".

Giuseppe Conte dovrà attuare un "contratto di governo" deciso non da lui ma dai partiti nello studio di un commercialista e in caso di controversie dovrà sottostare ai diktat di un Comitato di conciliazione egemonizzato dai due segretari. Si va così a far benedire l’articolo 95 della Costituzione, in base al quale "il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile". Per molto meno, Marco Pannella, e prima di lui Giuseppe Maranini, dichiarò guerra alla "partitocrazia" invocando la "liberazione" di governo e parlamento. Molto meno, anche perché se dovesse passare l’annunciata riforma dell’articolo 67 della Costituzione, con relativa imposizione del vincolo di mandato, i parlamentari cesserebbero di rappresentare "la Nazione" per rappresentare unicamente la volontà dei segretari di partito. Passeremmo così dall’esecrato "parlamento dei nominati" al parlamento dei pilotati. Non è dunque vero che siamo tornati alla Prima Repubblica: la stiamo allegramente superando in peggio. Va bene il cambiamento, va bene il rispetto della volontà popolare. Ma se non vogliamo davvero ritrovarci a Weimar sarà il caso di tornare a parlare di una legge elettorale maggioritaria e dell’elezione diretta del capo del governo. E di farlo prima che l’impossibilità di onorare le promesse fatte induca Di Maio e Salvini a invocare nuove elezioni.