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Schumi50 e un caffè da prendere insiemeLeo Turrini - 1 gennaio 2019

Buon 2019 a tutti.

Ricordo ai miei amici ferraristi che da qualche ora non è più possibile dire: ah, vinceremo l’anno prossimo.

Significherebbe slittare al 2020.

Di seguito la parte finale del mio viaggio con Schumi. Buon compleanno a lui e un grande abbraccio alla sua famiglia.

SCHUMI 50 (finale)

E a proposito di Mercedes, non negherò ai miei quattro lettori l’azzardo di una spiegazione su un ritorno, nel 2010, che tanto irritò i ferraristi, da Montezemolo in giù.
Io mi sono fatto l’idea che Schumi non riuscisse a conciliare il peso del vivere e la rinuncia alla magnifica ossessione che aveva caratterizzato l’esistenza sua sin da quando era piccino. Correre per lui era tutto e lo affermo senza sminuire l’affetto vero che ha sempre provato per Corinna e per i figli. Ma lontano dalle piste si sentiva dimezzato e quando gli annunciarono che certi investimenti immobiliari in Dubai si erano risolti in un disastro, ecco, ebbe anche la spinta di un interesse a ricostruire parte del patrimonio smarrito.
Andò così. Fu un errore? Con il senno di poi, sicuro. Ma come gli brillavano gli occhi quando nel 2012 fece la pole a Montecarlo! Aveva la gioia del bambino, anche se per una vecchia penalità la domenica lo retrocessero in griglia.
Ah, Schumi! Quanti viaggi per seguirlo e quante righe per raccontarlo (gli ho dedicato anche un libro, fortunato non per merito dell’autore ma del soggetto), quante palpitazioni per le sue imprese da ferrarista. Così tante che è difficile scegliere, ma se proprio debbo ne butto lì una manciata. Con una premessa: i 5 titoli aggiunti alla doppietta in Benetton non coincidono con il miglior Schumi sull’asfalto. Il top, secondo me, il nibelungo eroe lo espresse nel 1997 e 1998, quando, con una Rossa non all’altezza di Williams e McLaren, beh, fece tremare Villeneuve e Hakkinen fino all’ultima gara.
Ma dicevo delle emozioni.
Suzuka 2000 e mi taccio, la fine di un incubo, la sublimazione di un genio, perché Michael calato dentro un abitacolo questo era, un algido Leonardo che disegnava traiettorie come arabeschi.
Imola 1996, la prima di tante pole con la Rossa, il boato di una folla che si inchinava al Messia, all’idolo che ci avrebbe trascinato fuori dal deserto.
Malesia 1999, il rientro dopo lo schianto di Silverstone, forse la gara più bella del tedesco ma non ne troverete il nome nell’albo d’oro, perché regalò la vittoria al compagno Irvine e zitti’ la brigata dei detrattori che ne avevano sollecitato il licenziamento dopo la porcata di Jerez 1997 ai danni di Villeneuve.
Sì fu una porcata e non fu l’unica. A scanso di equivoci: io non sto celebrando un santino ma un uomo in carne e ossa, un individuo che nel mestiere aveva pregi e difetti, uno che per vincere avrebbe asfaltato la mamma e in questo era uguale a Senna.
Così, torniamo la’. Torniamo alla domenica orribile di Imola. Erano di Michael gli occhi che videro Ayrton schiantarsi al Tamburello, lo stava inseguendo, era l’ennesimo capitolo di una sfida che, fosse durata, oggi sarebbe ricordata come una leggenda.
Non erano amici. Non potevano esserlo. L’imperatore in carica non può simpatizzare per il candidato alla successione. Ma si stimavano enormemente, pur detestandosi a pelle. E mi sono commosso quando, alcuni anni dopo la tragedia del 1994, Michael si pentì pubblicamente di non essere andato in Brasile, a dirgli addio.
Che storia. Che storie. Senza il Tamburello a Maranello nel 1996 ci sarebbe andato Ayrton e chissà se avrebbe vinto tanto quanto Schumi. Sliding doors, dicono gli anglosassoni. La differenza tra morte e vita, banalmente.
In Emilia, Michelone trovò la seconda patria. La casa per la magnifica ossessione. Cosa abbia rappresentato per generazioni di ferraristi, certo non debbo spiegarlo qui. Per chi ama il calcio il mantra era “Zoff-Gentile-Cabrini-Oriali-Collovati-Scirea-Conti”. Per quelli come me, la formazione tipo era “Schumacher-Montezemolo-Todt-Brawn-Byrne- Domenicali-Martinelli”. E si vinceva sempre, eh.
La pianto? La pianto, con un chiarimento a scanso di equivoci.
Michael Schumacher non ha mai concesso confidenza a un giornalista che fosse uno. Men che meno a me. Era una filosofia di vita. Era aperto e disponibile con quanti lavoravano con lui e per lui, dagli ingegneri ai meccanici. Manifestava affetto e attenzione per la gente di cui si fidava. Giocava a calcetto come l’ultimo degli scarponi. Dedicava le pole a Mamma Rossella ma non era l’amante, era la cuoca del Montana, il luogo in cui imparò a confezionare tagliatelle.
Ma, fuori da quel mondo della magnifica ossessione, non si prestava. Una volta gli chiedemmo: perché non ci racconti un po’ di te, della tua vita, del tuo privato? E lui rispose: al circuito ogni giorno ci sono quattrocento cronisti, tutti vorrebbero prendere un caffè con me e io non posso bere 400 caffè al giorno…
Ineccepibile. Solo che a me la voglia è rimasta, Schumi. E darei tanto, sai, per poterlo bere insieme oggi, quel benedetto caffè.
Vorrebbe dire che sei tornato da quel viaggio iniziato cinque anni, sulla neve crudele dell’Alta Savoia.
Dai, fratello. Ti sto aspettando.