- Suzuka, per noi.
O meglio.
Suzuka, per me.
La rinuncia definitiva del Giappone al suo Gran Premio è una inevitabile ferita.
Per inciso.
Parliamo di un evento previsto per l’autunno.
Cancellarlo allunga ombre sulla Olimpiade postdatata al 2021.
Sottovoce: temo che i conti con la pandemia, a livello globale, mica siano chiusi.
E poi c’è l’aspetto emotivo.
Molto personale, lo ammetto.
Non so quanti, tra voi che passate di qua, ci siano mai stati, a Suzuka.
Allora, facciamo così: leggete. E poi credete a quello che vi pare.
Io, quando andavo a Suzuka, quando camminavo nel tunnel che sta sotto il rettilineo d’arrivo, beh, pensavo cose bellissime, cose che la nostra realtà, lo riconosco malinconicamente, ha spazzato o sta tentando di spazzare via.
Io ero lì e mi dicevo: questo è il mondo che vorrei. Sono nella luce fioca dell’Oriente e mi rendo conto che anche qua amano le macchine da corsa e i piloti come in Italia, come in Europa, come nelle Americhe.
In fondo, perché ho girato tanto, per tutta la vita?
Per individuare punti di contatto. Per scoprire che la diversità è un vantaggio e non un limite. Per specchiarmi nella emozione altrui, accorgendomi che è uguale alla mia.
Illuso?
Di sicuro.
Ingenuo?
Certo.
Ma non farei cambio! Francamente me ne infischio dei nuovi eroi della identità, dei sempliciotti che predicano “prima…” e non si rendono conto che qualcuno vorrà sempre venire “prima” di te.
Fa niente.
I lost. Ho perso.
Suzuka mi mancherà. Le meraviglie e le porcherie di Ayrton. Le gioie estreme di Schumi nel 2000 e nel 2003. Un fumo bianco che sale da un motore Rosso nel 2006.
Suzuka, per chi ha vissuto come me, è l’amore per una idea.
Condivisa.
E dunque, che peccato!, sconfitta.
Per sempre?
Quanto ci mancherà Suzuka