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Quando Corinna disse sìLeo Turrini - 26 marzo 2020

Spero tutti bene.

Procedo nella ricostruzione del l’affascinante e meraviglioso 1999, sicuramente il mondiale di Formula Uno più controverso che a me sia capitato di vivere in presa diretta.

Avevo pensato che dopo le turbolenze di giugno (Schumi a muro in Canada), di luglio (il dramma di Michael a Silverstone), di agosto (la doppietta di Irvine fra Austria e Germania) e di settembre (il pianto di Hakkinen a Monza, la ruota di Eddie misteriosamente scomparsa al Ring), ecco, avevo pensato che ottobre avrebbe portato la quiete.

Tanto, sul fatto che Mika con la McLaren fosse superiore a Irvine sulla Rossa, via, non c’erano dubbi.

Nemmeno per me.

Facciamo che immaginando la quiete mi illudevo. Ha sempre fatto parte della mia identità una discreta dose di ingenuità.

Dunque, la sparizione della ruota del Ring genero’ la riapparizione di Schumi.

Falliti i tentativi estivi di recupero lampo, ci eravamo adattati all’idea che Michael sarebbe tornato alle gare soltanto nel 2000.

Come suggerivano la logica e il dottor Saillant. Solo che.

Solo che era sparita una ruota e insomma il delirio mediatico aveva inesorabilmente trascinato Todt e l’intera Ferrari sul banco degli imputati.

Serviva un colpo d’ala. Non dimenticate mai (mai!) che la Ferrari vende emozioni. E per promuovere le emozioni ti serve una immagine positiva. Non facendo pubblicità per scelta originale e azzeccatissima del Vecchio, la Ferrari non può permettersi sospetti. Può permettersi le sconfitte in pista, perché perdere fa parte della vita e quindi anche delle corse (questa cosa gli imbecilli non la capiranno mai: poteva sopravvivere il mito a 21 anni di digiuno iridato e oggi di nuovo siamo già a 13, se tutto dipendesse in esclusiva dai risultati?).

Torniamo a bomba.

Dopo il Ruota-gate, viene annunciato che Schumi affronterà un nuovo test al Mugello. Stavolta la sala stampa viene aperta, quindi non posso portare con me il co fondatore del Clog, il prode Otelma. Prometto di aggiornarlo via telefono sull’andamento delle prove.

Il clima di attesa è facilmente intuibile. Mancano 2 Gran Premi al termine della stagione. Hakkinen ha due punti appena di vantaggio su Irvine. E la Ferrari può ancora vincere il mondiale costruttori.

Scrivo spesso, con buona pace dei babbei anonimi che pretendono di insegnare a me mestiere e Formula Uno, scrivo spesso, sì, che o certe cose le hai vissute di persona oppure stai zitto e ascolti chi c’era.

Quel giorno al Mugello, tutto stava andando benissimo. Io guardavo fuori dalla vetrata e prendevo persino i tempi sul giro.

Michael girava e girava. Andava forte come sempre. A occhio, nessuna indicazione negativa.

Non avevo dubbi: a sera, in una già convocata conferenza stampa, Michael avrebbe annunciato il suo rientro in Malesia.

Solo una cosa mi lasciava perplesso. L’atteggiamento dei colleghi tedeschi presenti sul posto. Non erano per niente eccitati. Non credevano minimamente al lieto fine che io prospettavo.

Dovevano sapere qualcosa che io ignoravo.

Venne la sera. Luci accese in sala stampa. Michael si fa attendere un poco. Ma si presenterà. È sempre stato molto professionale. Freddo, ma corretto. Venne a parlarci anche a Jerez, in un fottuto dopo gara del 1997 (anche il 1997 dovrei raccontare in dettaglio, non fu meno eccitante).

Eccolo.

Adesso dice che va in Malesia, penso. E a parte i tedeschi suppongo che lo stiamo pensando tutti.

“Mi dispiace, non sono ancora fisicamente pronto. Ci ho provato ma ho capito che non sono in grado di correre a Sepang e a Suzuka. Ora torno a casa per preparare il 2000. Auguri a Irvine, a Salo e alla Ferrari, che resta la mia famiglia”.

Gesù, Giuseppe e Maria!

Ha detto proprio così. I telefonini impazziscono. La notizia rimbalza nei Tg della sera. Dilaga lo scoramento tra i ferraristi.

Colpo basso. Bassissimo.

Finisco di lavorare per il giornale alle dieci di sera. Debbo rifare l’Appennino in senso inverso è ancora non c’era la variante di valico.

Ma che cazzo sarà successo?!?

Sembrava tutto a posto. Guidava da Dio come sempre. Tanti chilometri. Un test perfetto, almeno in apparenza.

Non fila. Non funziona. C’è qualcosa che mi sfugge.

Ora, adesso scomoderò una leggenda metropolitana alla quale può essere bello credere, perché talvolta il verosimile è più credibile del vero, pensa te (figuriamoci in folle era da virus).

La leggenda va così.

All’indomani del gran rifiuto di Schumi, un costernato Montezemolo telefona al tedesco. Trova il cellulare spento. Allora chiama sul fisso. Risponde la piccola Gina Maria.

No, papà non è in casa, sta giocando a calcetto con gli amici in giardino.

La voce innocente di una bimbetta di nemmeno tre anni di età avrebbe innescato la clamorosa inversione a U.

Sia come sia, l’inversione a U fu repentina, velocissima, straniante.

Schumi si scoprì guarito a tempo di record. Sarebbe partito per la Malesia con la squadra.

Per dare la lieta novella, fu allestito un incontro con i giornalisti all’interno del circuito di Fiorano. Michael ed Eddie, elegantissimi, si presentarono assieme a stampa e tv.

Sorridevano. Ma, a pelle, io intuivo che uno dei due era molto contento.

Solo uno dei due.

Ps. Molti anni dopo, Montezemolo mi disse che la storia della bambina al telefono era bella ma inventata. Le cose invece andarono così, nella avvocatesca versione. Schumi al Mugello non aveva accusato difficoltà, ma ormai mentalmente si era già focalizzato sul 2000 e non intendeva prendere rischi inutili. Ma il presidente gli disse: noi ti dobbiamo tanto, ma anche tu ci devi qualcosa, dopo Jerez97 non abbiamo dato credito a chi ti accusava di ogni nefandezza. È un momento delicato, fai quello che è giusto per la Ferrari, non per me o per Todt o per Irvine.

Michael chiese di poterne parlare con Corinna. Le aveva già promesso che fino a marzo 2000 non ci sarebbe stata, per lei, l’ansia di nuovi Gran Premi.

Schumi richiamò Montezemolo dopo cinque minuti. Mia moglie capisce ed è d’accordo. Domani annunceremo che vado in Malesia. Per la Ferrari.

Stava per arrivare un monsone, a Sepang.

(Continua)