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Leclerc come Mansell, Raikkonen e Alonso?Leo Turrini - 11 marzo 2019

Non che la cosa, in se’, sia decisiva.
Per dire, non ci riuscirono personaggi del calibro di Lauda, di Prost, di Schumacher, di Vettel.
Ma io lo so cosa sta sognando Leclerc. Ed è giusto che ci pensi e che ci creda.
Vincere subito con la Ferrari!
Come Nigel Mansell quella volta in Brasile. Ultimo show a Jacarepagua
1989.
Senna campione del mondo in carica.
Stavo in un albergo di Rio e avevo ancora una visione ingenua della vita.
Ricordo quel contrasto stridente tra la nostra opulenza di ricchi europei e la miseria disarmante delle favelas che si scorgevano dalla piscina dell’hotel di lusso.
La mattina del mercoledì arrivò a bordo vasca Prost. Correva ancora per la McLaren. Indicò la non distante distesa di catapecchie poverissime e disse: lo sapete che se un giorno dalle favelas scendessero fin qua e bruciassero tutto nemmeno avrebbero torto?
Le disuguaglianze. Le iniquità. Alain era uno che capiva, anche se si rendeva conto che cambiare il mondo non era esercizio a portata di mano.
1989.
Mansell debuttava sulla Rossa. Lui e Berger avevano la macchina con il cambio elettroattuato.
Modernissima.
Fragilissima.
Rammento il mio sbalordimento quando il Leone inglese tagliò il traguardo in trionfo.
In sala stampa ero esterrefatto ed allibito. Passò una hostess mulatta e sorpresa dal mio stupore mi disse: beh, sei italiano e non lo sapevi che la Ferrari è unica?
Obrigado.
Poi venne KR7.
Melbourne 2007.
Primo Gp senza Schumi sulla Rossa.
Raikkonen era, già allora, un tipo originale.
Se ne fotteva del contesto.
Un grande.
Aveva un auto super e non sbagliò niente.
Uscito dall’abitacolo, il Santo Bevitore vide Todt che agitava un telefonino.
Todt era ancora al muretto e stava governando da par suo il passaggio da una epoca d’oro ad una fase che si sarebbe rivelata molto più complicata (infatti, dura ancora).
Io adoravo Melbourne.
Ci sono andato dal 1996 al 2012. Potrei descrivere la spiaggia di Santa Kilda e le librerie eleganti e le ostriche che mangiavo. E il ponte di barche sull’Albert Park (o almeno a me parevano barche) e certe notti e i silenzi della solitudine sulla Great Ocean Road, giù fino a Geelong, alla riva dei Dodici Apostoli. Qui ci potrei anche morire, mi ripetevo. Arrivarono tre pinguini, non imparentati con Todt, e mi fecero cambiare idea.
Ma c’era quel cellulare che Todt agitava verso Kimi e Kimi ormai era salito sul podio e Jean continuava ad allungargli il telefono e Raikkonen niente, infine chiese: ma chi è?!?
Era Schumi.
Lo chiamo io dopo, disse KR7. Mi sono sempre scordato di chiedergli se l’abbia fatto.
Bwoah.
Poi venne Nando.
Bahrein 2010.
Alonso sognava la Ferrari da una vita. La sognava anche quando ne parlava male, per compiacere una corte di babbei.
Secondo me se la sogna anche adesso, altro che Toyota, Cadillac e Indy.
Ma eravamo nel deserto, quell’anno il campionato iniziava lì.
Alonso era sul pezzo.
Concentratissimo. Gran manico, a scanso di equivoci.
Vinse e fu forte la suggestione. La domenica sera, finito di lavorare, aspettando il taxi osservai le stelle che illuminavano le dune.
Mi dissi: forse è cominciata una nuova era felice.
Mi sbagliavo.
Sto ancora aspettando.
Sono figlio dei miei errori.
Ma se Leclerc a Melbourne pensa di imitare Mansell, Kimi e Fernando, beh, ha tutta la mia comprensione.