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Hamilton come Cristiano RonaldoLeo Turrini - 13 marzo 2019

E poi ci sarebbe Lewis Hamilton.
So bene che in questo ameno luogo non pochi non si riconoscono nella ammirazione che genuinamente io nutro per lui.
De gustibus non disputandum est.
A me non garbano gli atteggiamenti di Lewis in pubblico, sui social, nelle interviste.
Ma in pista è un grande, grande campione. Uno dei migliori di sempre.
Farò un paragone.
Io trovo assolutamente discutibile il modo di essere di Cristiano Ronaldo. I figli tramite utero in affitto. Le manie private, spero per lui innocenti, FBI permettendo. L’evasione fiscale.
Ma è un calciatore meraviglioso, uno che vorrei sempre nella mia squadra e mai contro, uno dei più grandi All Time.
Torno a Hamilton.
L’ho conosciuto a Melbourne, dodici anni fa.
Me ne avevano parlato molto bene eppure non mi fidavo.
Trovavo esagerate le aspettative alimentate dai mass media britannici.
A Londra e dintorni sono tipi curiosi (vedi casino della Brexit, eh). Fanno tanto i signori del mondo, il ricordo dell’Impero e bla bla bla.
Ma sono dei gran provinciali.
Mi dissi: guarda e fatti una tua idea.
Guardai.
Terzo in gara in Australia. Non lontano da Raikkonen, vincitore in Rosso, e dal compagno Alonso.
Su un tracciato che non conosceva.
Ah, però.
Tornai a casa e un amico carissimo, ferrarista sfegatato, mi disse: ehi, sono contento per Kimi ma tieni d’occhio Il cioccolatino.
Lo chiamava così, senza alcun intento discriminatorio (le parole sono importanti, non è una mia massima, poi dipende o meglio dovrebbe dipendere dal sentimento che uno ci mette, ma non allarghiamoci).
E io lo tenevo d’occhio, Lewis.
Debbo confessare che tra le oltre trenta stagioni di F1 che ho vissuto, quella del 2007 resta memorabile.
Lo scandalo spy story.
Hamilton versus Alonso.
Il sabato di Budapest, con il parcheggio extra time di Nando al pit stop.
I processi.
Le confessioni.
Le amnesie.
La sentenza di Parigi.
Io c’ero sempre.
E il mio amico continuava a sussurrarmi: bada ad Hamilton, speriamo perda contro Kimi, ma questo ha qualcosa di speciale dentro.
E venne la domenica di Interlagos.
Il tormento.
Il tormentone.
Lewis era ancora acerbo e non resse sull’ultima frontiera.
Ma aveva ragione il mio amico ferrarista.
Non poteva essere casuale la velocità naturale che quel ragazzo dalla pelle scura palesava.
Il resto si sa e ognuno è libero di pensarla come vuole.
Io la penso come Schumi, che quando mi disse una certa cosa era consulente Ferrari.
Simpatico non è, spiego’ il sette volte campione del mondo.
Ma quando guida, è formidabile.
Appunto.
Voglio finire questo racconto con due brandelli d’anima.
Pochi giorni dopo Interlagos 2007, mi ricoverarono per un guasto cardiaco.
Lo feci sapere a Kimi e lui, invece di limitarsi al bwoah di rito, si mise a ridere.
Se ne vinco un altro mi sa che schiatti, mormorò risparmiandomi il classico wait and see.
Nel frattempo, l’amico carissimo che mi aveva invitato a “curare” Hamilton visse l’ultimo atto di felicità brindando con me al mondiale incredibile di KR7.
Aveva un tumore al pancreas.
Lo sapeva.
Lo sapevo.
È morto ad aprile 2008.
Su Hamilton, aveva ragione lui.
Aveva ragione anche su tante altre cose.
Io sono ancora qui.
Ad aspettare che Lewis torni a perdere.