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Dentro l’autunno triste della Signora in RossoLeo Turrini - 7 ottobre 2018

Le Cinque Settimane dell’incubo.
Tra l’1 settembre, trionfale sabato tutto Rosso in quel di Monza, e il 7 ottobre, domenica della ormai certa consacrazione iridata di Lewis Hamilton a Suzuka, ci stanno appunto cinque settimane, giorno più giorno meno.
5 come i titoli mondiali di Hamilton. Onore al merito, ma sono state cinque settimane in cui la Ferrari ha dissipato speranze e abbandonato sogni. Autunno più triste, per il Cavallino, non riesco davvero ad immaginare!
Mettiamo da parte il risultato giapponese, esasperato dalle collisioni con l’Indiavolato Verstappen, il giovanotto vede Rosso e ti infilza come un torero. Sì, d’accordo, senza guai figli almeno in parte dell’olandese, il podio era garantito. E non mi interessa lo scontato processo a Vettel, ormai è una moda dipingerlo come un fuori di testa…
Ma le Mercedes, come ha detto uno sconsolato Seb, sarebbero comunque state imprendibili. Il Nero viaggiava con il gomito di fuori.
Dunque, da qui debbo partire, con la mia analisi. Sarò banale e sarò pedante.
Come è possibile che in cinque settimane il mondo e il mondiale della Ferrari si siano rovesciati, dileguati, azzerati? Problemi di sviluppo? Crescita esponenziale del grande avversario? O qualcos’altro ancora, un mostruoso complotto ideato da cospiratori orrendi, ovviamente smascherati dal mio badante Ricccris?
Tento di ridere per non piangere, metaforicamente.
Seriamente.
Questa, sulle radici delle settimane che hanno trasformato il sogno in incubo!, è la risposta che aspetto, perché non ho la presunzione di aver compreso le ragioni di un tracollo che, al netto degli episodi, è tanto clamoroso quanto repentino.
Elkann e Camilleri, i successori di Sergio Marchionne, faranno bene a cercare le spiegazioni. Io non dirò che il declino improvviso è una conseguenza della tragica scomparsa del manager con il pullover. Non sarebbe rispettoso e inoltre certi discorsi, l’ho già detto, non mi piacciono. Ma ci sono coincidenze inquietanti, purtroppo.
Dovranno essere bravi, allora, il presidente e l’amministratore delegato, a pretendere massima coesione ai vertici del reparto corse. Senza compattezza non si va da nessuna parte. È una frase fatta? Si, è una frase fatta ideata da un Rimba come me.
Ecco. La Ferrari migliore di sempre, quella del Dream Team schumacheriano, poggiava sulla perfetta simbiosi tra Jean Todt, il team principal, e Ross Brawn, il direttore tecnico. I casini si risolvevano in famiglia. Gli stracci volavano, oh se volevano. Però Ross al primo discorso al team disse: d’ora in poi nessuno venga a dire che perdiamo per colpa del motore o del telaio o dell’aerodinamica. Era il gennaio del 1997.
Oggi ci sono Maurizio Arrivabene e Mattia Binotto. Cambiano le persone, cambiano i tempi, cambiano le situazioni, ci mancherebbe. Ma non deve subire mutamenti lo spirito di collaborazione. Alla Ferrari serve Arrivabene e serve Binotto. Se vanno d’accordo, si capisce. Se non funziona la chimica tra loro, chi può provveda.
Lo so che rischio di essere noioso, anzi, sicuramente lo sono. Ma come mi diceva l’altra sera a cena Piero Ferrari, il figlio del Drake, imparare dal passato non è pura nostalgia, quando ci si trova nella condizione di dover progettare una ripartenza.
Perché un autunno così è una mortificazione che chi ama la Signora in Rosso non merita.