Firenze, 31 marzo 2015 – E’ Pasolini, con il post Roma capitale secondo Pasolini, il vincitore della nostra gara mensile. Lo abbiamo detto altre volte e lo diciamo ancora adesso, fornendo a questa affermazione un’ennesima riprova: il messaggio letterario, intellettuale e artistico di un poeta come Pasolini è sentito oggi attualissimo, anche allorchè esso è svolto nei termini per così dire primari e più immediatamente identificabili come tali della scrittura in versi. Meditazione orale, tra l’altro, è un testo poetico bellissimo, del tutto meritevole di questo grande riscontro, al pari di quello registrato qualche mese fa (Anniversario Pasolini 1975-2014, post del mese di novembre e superpost dell’anno 2014) che ho da poco scoperto segnalato e valorizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia. Grazie, anche a nome degli autori dei bei commenti integralmente riportati!

Il podio di marzo si completa con un grande scrittore italiano del Novecento altrettanto seguito dagli amici di queste “Notizie” (Federigo Tozzi. Per festeggiare due libri) e di una notevole poetessa contemporanea apprezzata, dopo la sua vittoria del Nobel, a livello internazionale (Il divorzio secondo Wisława Szymborska). Doveroso segnalare ancora, in tema di scrittrici, l’affermazione di tipo anniversario-celebrativo del post 8 Marzo con Sibilla Aleramo, a base di moltissmi “mi piace” ma con un solo commento, quello peraltro del tutto condivisibile di Elisabetta Biondi della Sdriscia che recita: “Una figura di donna e di scrittrice che ben si presta alle celebrazioni dell’otto marzo: una donna forte che seppe trovare il coraggio di una difficile indipendenza nonostante le innumerevoli difficoltà, un’intellettuale aperta, una scrittrice sensibile che ci ha lasciato tra l’altro poesie delicate come quelle proposte sul blog di oggi, una donna appassionata che cercò instancabilmente l’amore della sua vita attraverso relazioni intense e tumultuose come quella con Dino Campana. Una donna a trecentosessanta gradi, dunque, adatta a rappresentarci tutte in questo giorno che ricorda le tante conquiste delle donne lungo la difficile strada dell’emancipazione“.

A domani, e buona lettura!

Marco Marchi

Roma capitale secondo Pasolini

VEDI I VIDEO “Meditazione orale” letta da Pier Paolo Pasolini, con musica di Ennio Morricone , Omaggio a Pasolini , “A Pa’”cantata da Francesco De Gregori e Lucio Dalla , “Profezia” letta da Toni Servillo

Firenze, 5 marzo 2015 – Ricordando che il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini.

La storia di questa strepitosa Meditazione orale la attingiamo direttamente dal web. Ennio Morricone doveva scrivere un pezzo da inserire nel disco commemorativo per le celebrazioni di Roma Capitale: era il 1970 e se ne festeggiava il centenario. Il musicista chiese a Pasolini di scrivere un testo per poi inciderlo con la sua voce, e questo avvenne in un disco RCA, realizzato, pubblicato e presto scomparso.

Per maggiori dettagli sull’episodio e su altre collaborazioni musicali Di Pasolini, con Morricone e con altri musicisti,  si può vedere, attingendo ancora dal web, http://www.pasolini.net/4tesimy_capitoloprimo02.htm  Per i rapporti strettissimi e fondativi intercorrenti tra musica e poesia a livello di poetica si vedano invece questi versi pasoliniali attualisticamente testimoniali, retrospettivi e insieme intimamente profetici, datati 1966, già provenienti cioè da un secondo Novecento della crisi, della contestata e discussa ridefinizione letteraria dei ruoli e delle pertinenze, della caduta delle speranze.

In Poeta delle Ceneri – quasi un consuntivo – Pasolini si affida ancora una volta all’«io», a un «io» da autoritratto tragicamente storicizzato, avviato ai traguardi da «tetro entusiasmo» di chi alla musica e alla poesia come a vere, praticabili ed esaltanti forme di speranza si era rivolto: ai suoni del «celeste Bach», ma anche, con la musica sublime di Bach promossa a esistenziale colonna sonora del reale e poi del cinema che quel reale avrebbe più agevolmente dovuto catturare, a quel fisico, anonimo e sensuale «brusio della vita» che la sera molte volte, un tempo, gli recapitava; lui il poeta settentrional-regressivo, pascolian-friulano di «Sera imbarlumida tal fossàl / a cres l’aga…» e del «nini muàrt» (testi certo non a caso, polemicamente e contraddittoriamente riscritti nella terminale, circolare Nuova gioventù), lui partecipe e discusso testimone di eventi civili e intime eclissi costantemente misurate tra corpo e musica, perso dietro all’apparizione cromatica di un glicine, di un albero che profuma.

«Io vorrei – ecco la sua voce spoglia e pedagogicamente atteggiata, che pure così ritrova la sua musica – soltanto vivere / pur essendo poeta / perché la vita si esprime anche solo con se stessa. / Vorrei esprimermi con gli esempi. / Gettare il mio corpo nella lotta. / Ma se le azioni della vita sono espressive, / anche l’espressione è azione. / Non questa mia espressione di poeta rinunciatario, / che dice solo cose, / e usa una lingua come te, povero diretto strumento; / ma l’espressione staccata dalle cose, / i segni fatti musica, / la poesia cantata e oscura, / che non esprime nulla se non se stessa». Un rimpianto, la musica, e ancora un desiderio, una «sete» per un poeta nuovamente tentato da un oscuro invito a ridefinirsi, a credere in trasformazioni per via di strane metafore e suoni, ad accrescimento e soccorso del mondo, per «amore della vita».

«Non farò questo con gioia – continua la voce –. Avrò sempre il rimpianto di quella poesia / che è azione essa stessa, nel distacco dalle cose, / nella sua musica che non esprime nulla / se non la propria calda e sublime passione per se stessa. / Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, / che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, / nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto / sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta / innocenza di querce, colli, acque e botri, / e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse alta, e indefinibile come le azioni della realtà».

Un sogno contraddetto e nel contempo sublimato da una morte il cui alto valore simbolico, sacrificale e in questo di significato civile, riapre di continuo in Pasolini, rendendolo inesauribile, il discorso relazionale individuo-società, e insieme potentemente lo suggella.

Marco Marchi

Meditazione orale

Che Roma fosse città coloniale
dove venire in vacanza.
Ne dimorarono molti, poeti non socialmente determinati
liberi dalla burocrazia e con un po’ di paura della polizia;
né mancarono i bei soli, in questo secolo;
ciò che scompariva dava un breve dolore,
l’unico vero dolore era nei sogni; nei sogni in cui pareva
di essere costretti a lasciare questa città per sempre!
Non si piange su una città coloniale, eppure
molta storia passò sotto questi cornicioni
(col colore del sole calante)
e fu spietata;
fu una scommessa tra i fascisti e i liberali;
inaspettatamente questi ultimi, imbelli e anche un po’ buffi,
(meridionali delicati di fegato)
l’ebbero vinta. I forti furono battuti;
molta storia passò all’ombra dei Ministeri,
ma che lacrime fossero sparse in sogno per questa città
ciò sa di miracoloso, è quasi incomprensibile;
lacrime violente, che parevano sparse sul cosmo;
le lacrime degli addii alle partenze senza ritorno
Poi ricominciava la vacanza
e una sete insaziabile di solitudine
Molta storia passò su questo asfalto
e lungo i muretti di pietra, insensibili al sole d’agosto,
molta storia. I vecchi parlamentari onestamente
con solennità sedentaria
ripresero il loro posto, or ridenti or severi
verso i loro elettori, condividendone la pace col mondo:
a ognuno il suo realismo!
Avevano vinto la scommessa nel Settentrione eroico
nel Meridione segreto
e un sorriso popolare o una serietà piccolo borghese
insomma la ritrovata dignità
riportò pellegrinaggi di poeti liberi da classe sociale,
senza obblighi né orari
sì che dopo il pianto, la cosa più incredibile
fu quel desiderio di solitudine,
che dava una felicità completa e tenuta tutta per sé.
Gli occhi che avevano pianto in sogno
ora guardavano
senza limiti di tempo o scadenze,
con pomeriggi o notti intere davanti,
in cui non accadeva che ciò che la storia dimenticava.
Oh, certo, non fu serio;
fu una vacanza
Tutto doveva poi essere ragione di rimprovero;
Roma fu sede di nuove battaglie.
Da dove erano discesi questi barbari?
Beh, erano nati qua, a Via Merulana, a Piazza Euclide,
a Centocelle: e infatti bastava che impallidissero un po’,
ed ecco le facce dei loro padri, o sconfitti o vittoriosi,
ma tutti perduti nel passato in cui le lacrime non contano
e il desiderio di solitudine non è serio;
la storia ricominciò a passare,
ma ai posteggi verso le quattro del pomeriggio c’era calma e sole,
dietro al Quadraro i prati erano deserti.

Pier Paolo Pasolini

(da Meditazione orale, Luca Sossella Editore)

I VOSTRI COMMENTI

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Pasolini ebbe il dono di riuscire a far poesia anche quando voleva fare (una straordinaria) non-poesia. Quanti invece, oggi, fanno (una miserabile) non-poesia proprio quando pretendono di far poesia?

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Versi-non versi li definisce Trinci questi della pasoliniana “Meditazione orale”: poesia quasi in prosa, che utilizza un registro linguistico medio, quotidiano, ma che, in contrasto con la semplicità della forma e del linguaggio, risulta complessa, densa, di non immediata decifrazione, come spesso accade ai testi profetici. Inizia, questa Meditazione, con un distico dall’apparenza quasi tradizionale, formato da un endecasillabo e da un ottonario: in realtà si tratta di un attacco fortemente provocatorio, di rottura, un anacoluto dall’efficacia dirompente, che resta sospeso nell’aria con la forza di una sentenza, di una verità inconfutabile, con il termine “coloniale”, evocatore di guerre e lontane e più recenti, contrapposto altrettanto provocatoriamente alla parola “vacanza”. E poi i lunghi versi-non versi in cui Pasolini ci mette di fronte alla realtà di una capitale che, ironicamente, è definita dalla “ritrovata dignità” in cui però non riesce a ritrovare il senso della storia. Una volta di più Pasolini ci conferma la sua naturale vocazione a quell’impegno civile che per lui era fondante e dal quale l’intellettuale non poteva prescindere.

Lector
Pasolini aveva davvero il dono di re Mida: tutto quello che toccava diventava poesia. E altissima poesia, naturalmente, è anche la sua non-poesia e la sua prosa (“La prosa è la poesia che la poesia non è”…). Ma al di là della forma, poesia è soprattutto il suo aprirsi alla contraddizione, il suo guardare alla vita senza lasciarsi governare dalle leggi della logica o dalle lusinghe dell’abitudine.

Aretusa Obliviosa
E noi qui, oggi ignominiosamente più di ieri dimentichi del nostro passato, inermi o forse indifferenti dinanzi alla storia e ai tribunali implacabili che essa erige. Ci siamo ma non ci siamo. Ed è difficile dire se esistiamo. Siamo creature imperfette e orfane di un Dio che ormai non cerchiamo nemmeno più. No, immenso poeta, non l’abbiamo imparata la tua lezione, non l’abbiamo ascoltata la tua voce. Colpevolmente. Qualcuno di noi ti porta nel cuore, di cerca ad ogni passo vicino a sé, lungo il cammino. Si ostina a salvarti. E questo, per adesso, è tutto.

Giulia Bagnoli
“I vecchi parlamentari onestamente / con solennità sedentaria / ripresero il loro posto, or ridenti or severi / verso i loro elettori, condividendone la pace col mondo: / a ognuno il suo realismo!”. Quanto sono attuali queste parole! Pasolini desiderava raccontare la storia che nessuno racconta: quella delle persone comuni, degli ultimi; una storia sempre dimenticata (“non accadeva che ciò che la storia dimenticava”) eppure così importante e vera. E’ “una storia sbagliata”, come canta De Andrè, ispirandosi proprio a Pasolini.

Giacomo Trinci
Tornare a leggere questi versi-non versi di Pasolini, costringe a riflettere, per contrasto, a quel dono della parola poetica di cui sono testimonianza i sublimi “canti perduti” della giovinezza friulana: un poeta così integralmente abitato dalla poesia che percorrerà la sua vita, continuerà il suo cammino all’insegna di un rifiuto del canto chiuso di cui era stato maestro all’inizio e che, comunque, continuerà ad infiltrarsi per altre vie, costituendosi in sguardo eretico sulle cose del mondo, in contorsione di corpo e mente. Caravaggio e Rimbaud, Longhi e Contini, segneranno una vocazione a “essere la poesia” e il segno di una lucidità dove ragione e passione, figura e furore, danzano una dialettica bruciante che distrugge, definitivamente, la poesia stessa, lasciandoci eredi di questa conflagrazione veramente epocale. Siamo stati, per ora, capaci di portare tutto questo, come nostra eredità? Questa la domanda pasolinianamente, ma anche leopardianamente, necessaria oggi.

Aretusa Obliviosa
Tu provi a farlo ogni giorno, Giacomo. Tu usi anche un mezzo come Fb per ricordarci sempre, nei versi, Pasolini.

tristan51
Filosoficamente, leopardianamente.

Marco Capecchi
Pasolini, coscienza critica di un Paese in caduta libera, riesce a pensare all’eterno presente di una capitale volgare ed a intrecciare storia e quotidiano in un continuo rimando tra l’ieri e l’oggi ricordandoci ciò che non siamo mai stati. Leggerlo e rifletterlo ci fa sentire orfani e soprattutto ci ricorda quanto minoritaria sia stata e sia, in Italia, una cultura luterana.

Tristan51
Non si può non pensare a “Petrolio”, visionario sogno dantesco a base di bolge e gironi in cui il capire appare a un certo punto come “gioiosa cognizione del capire”, dove i personaggi parlano una lingua meravigliosa «in versi o in musica». E non si può non pensare, a integrazione del discorso e per contrasto, ai versi del “Glicine” che già nella “Religione del mio tempo” per via di accertamenti sperimentati sulla propria pelle dicevano: “tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò che è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli”.

framo
La dimensione temporale non si dà come rifugio, il passato pseudosociale e il presente involgarito gravano come un macigno sulle categorie attuali, vanificando ogni slancio individuale e civile verso un “futuro” che ci orienti. Ecco dunque che non cessano di “contare” “le lacrime degli addii alle partenze senza ritorno” a cui fa seguito, pressante, quel “desiderio serio di solitudine” … “che dava una felicità completa e tenuta tutta per sè”. In quell’aria di vacanza, in quei “posteggi pomeridiani”, assolati e quieti, resta ancora possibile ritagliare uno spazio umanamente abitabile, una promessa non del tutto vuota e priva di libertà? Grazie.