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Firenze, 28 febbraio 2014 – Articolo pubblicato su “QN” di oggi.
L’eredità di Luzi, senatore di pace. Il poeta e lo scontro con la Storia
A dieci anni dalla scomparsa, fra letteratura e impegno civile
Dieci anni fa nella sua casa di Bellariva a Firenze moriva Mario Luzi. Se ne andava con discrezione, secondo una morte comportatasi con lui in maniera gentile, definibile veramente come la «morte del giusto», la morte di un uomo buono. Aveva fatto in tempo, quella mattina del 28 febbraio 2005, ad accendere la radio che teneva vicino al letto, per entrare così, giorno dopo giorno com’era sua abitudine, in quella vicenda del mondo che tanto lo affascinava e tanto lo preoccupava. Entrarvi come uomo e come artista, secondo evoluzioni e movimenti interni rilevabili nella sua vasta carriera letteraria che già all’altezza del 1963, l’anno di Nel magma, avevano segnato per lui, il principe degli ermetici, una completa e responsabile accoglienza del modello dantesco.
Firenze, la sua città, lo aveva solennemente festeggiato qualche mese prima, il 20 ottobre, in occasione del novantesimo compleanno. Tutti ci eravamo stretti attorno ai suoi novant’anni meravigliosi, salutando uno splendido nuovo libro, Dottrina dell’estremo principiante, e, assieme, la sua nomina senatoriale: quasi un suggello all’impegno civile, umano e societario, che un vero poeta non può non portare con sé e che nella poesia di Luzi si era fatto nel corso degli anni sempre più visibile.
La sua nomina a senatore era stata caldeggiata da molti, e non solo per gli indiscussi meriti letterari, ma anche per la sua figura di intellettuale di alto profilo morale aperto all’impegno civile. Luzi aveva preparato un discorso al Senato, che la morte gli impedì di pronunciare, e che però fu opportunamente reso noto.
Consapevole di porsi sulla scia di precedenti illustri (da Manzoni a Carducci, da Verga a Montale), Luzi rivendicava all’alto onore che gli era stato riservato con tale nomina una sua funzione rappresentativa in un duplice senso. Una presenza volta esibitamente a difendere “il settore della cultura, dell’arte, della loro storia, dei loro documenti e monumenti, della loro attualità”; e, insieme, una partecipazione responsabile di uomo “né di partito né di parte”, ma “di pace”, civilmente interessato a favorire e promuovere qualsiasi azione e comportamento ad essa indirizzati.
“Non devo dire molto di più su me stesso – aggiungeva Luzi senza cedere a infingimenti o trionfalismi, tra pessimismo e speranza – se non confermarmi nell’atavico sentimento comune a tutti gli uomini della mia generazione e delle antecedenti alla mia che l’Italia è un grande paese in fieri, come le sue cattedrali. Lo è secolarmente, non discende da una potestà di fatto come altre nazioni europee, viene da lontani movimenti sussultori fino alla vulcanicità dell’Otto e del Novecento”. Un poeta, anche in queste parole che coniugano significativamente storia e natura, a difesa dell’umano e dei suoi più alti, qualificanti e collettivi valori.
E la poesia di Luzi fa magnificamente eco alle sue parole di uomo pubblico, volto sostanzialmente a far convergere anche in questa sede il suo interesse per la “sorte comune”. Storia e memoria vengono infatti ad assumere nei versi di Mario Luzi significati di assoluto rilievo, mentre il tema civile del superamento dell’insensatezza di un “buio sangue” della violenza e della distruzione sfocia e si propaga nel più diffuso, ininterrotto afflato perfezionante dell’universo.
In entrambi i casi, partecipando e ricordando, la lirica di Luzi “tende a”: canta, pur nel rigore dell’indagine, su accorate tonalità di esortazione invocante, spesso di fermo ammonimento e di richiamo, ma anche su registri di nitida contemplazione, di intatta e superiore fiducia in quel “magma” contraddittorio e pulsante in cui si incarnano i destini dell’uomo e del mondo.
Una dizione sconfinata e profonda, dantescamente inclusiva, e in essa, ben riconoscibili, tanti tragici eventi novecenteschi e di nuovo millennio: dalla Seconda Guerra mondiale e i suoi orrori alla Guerra del Golfo poi riaccesasi, da Praga al Vietnam, dall’assassinio Moro alle stragi che hanno funestato la recente storia italiana, fino alle oltranze cruente e quasi inimmaginabili del terrorismo su scala mondiale.
Accadimenti con cui la poesia si incontra e si scontra, fornendo, proprio in questo suo umano non potersi sottrarre a responsabilità e nel contempo a un dono ricevuto e prezioso come la parola, un’ampliabile indicazione di valore etico: una testimonianza e un pegno memoriale che valgono, al di là qualsiasi nefando “scelus” perpetrato, una continuità.
Marco Marchi
Muore ignominiosamente la repubblica
Muore ignominiosamente la repubblica.
Ignominiosamente la spiano
i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.
Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto.
Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani,
si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli.
Tutto accade ignominiosamente, tutto
meno la morte medesima – cerco di farmi intendere
dinanzi a non so che tribunale
di che sognata equità. E l’udienza è tolta.
Mario Luzi
(da Al fuoco della controversia, in L’opera poetica)
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