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Firenze, 14 marzo 2015 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della morte del poeta Bartolo Cattafi (Milano, 13 marzo 1979).
Il viaggio della vita del siciliano Bartolo Cattafi (nato a Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina, il 6 luglio 1922) è stato anche un viaggio della poesia, della affidabilità o meno dei suoi oracoli, della sua stessa pretesa configurazione divinatorio-conoscitiva depositaria, mediante parole, di rivelazioni.
Nuovo Edipo di fronte alla vita, costretto alla vista inammissibile della inammissibile vita, Bartolo Cattafi ha presto capito, grazie alla poesia, che il reale, per essere penetrato, colpito, fissato e così certificato, richiede efferatezze. La vita, la vista… Così scrive in un suo testo il poeta: «Mi chiudo nel guscio delle palpebre / cammino e incespico» (Me ne vado, in La discesa al trono). Stanchezze del viaggiatore dimissionario? Peregrinazione coincidente con l’immobilità, dislocazioni e spostamenti ormai senza confini, ormai senza tempo e ancora senza senso?
«In aegra urbe», con Edipo, fra destino ed inconscio, classicismo e surrealismo. «In aegra urbe»: all’incrocio di tutte le strade, a quel fatidico, unico «trivium» da tenere a mente con il ricorso alla musica di Stravinskij su libretto di Cocteau come altro modo di esprimere lo smarrimento, la crisi permanente: di fare per via di freudismo classicamente rimodellato, espressionismo oggettuale, coriaceo e quasi categoriale, senza gridi. Nient’altro, insomma, all’infuori del «trivium» degli oggetti stessi perlustrati nella loro fisicità simbolica e formale, l’incrocio in cui canalizzare la protesta, il disagio che tutto investe.
Un viaggio della vista che corrisponde all’unico viaggio della vita: che lo compendia, che, ripetendolo, lo rende sempre odierno ed allarmante, con un vecchio ucciso all’incrocio di tre strade. La vista, l’accecamento dinanzi al vero, il racconto di un enigma già dato, e per la poesia di Cattafi – una di sicuro delle esperienze poetiche più valide del nostro secondo Novecento – lo sconfinamento nell’atemporale, o meglio in una sorta di integrale cronismo attaccato ai suoi fitti dati di riferimento quanto storicamente sfiduciato; uno sconfinamento nel matericamente assolutizzato, momentaneo e casuale e insieme mitico e fondante.
«Dov’è l’antica Grecia / con dracme sonore / come il mare d’Omero?», si chiederanno alcuni versi di Storia, nelle precoci ma già del tutto orientanti Mosche del meriggio. Tre strade che s’incrociano, o quella geografica «Terra dei Tre Capi» citata per via di Ulisse da Omero: una «ricca, fiera, boscosa» geometricamente disposta e percorribile «da un cateto all’altro», che però «Se vi sbarchi è come / un approdo in Nordafrica / o al Partenone / in un’aria di semicolonia / e si è metà dentro metà fuori / di un chiaro capitolo di storia» (Thrinakie, in L’osso, l’anima).
E un’altra Grecia ancora, alternativa, incrociata e innaturale anch’essa, modernamente disarmonica e conflittuale, cui tuttavia di nuovo la poesia partecipa, con l’ambiguità che è tipica dei suoi responsi, delle sue ieratiche e insindacabili presenze: essa stessa, la poesia, nelle vesti sontuosamente materne, attraenti e paurose di un’estrema Giocasta. O come scrigno del leopardiano «crudo vero», o come arduo, residuale e dirompente messaggio del divino: di quel Dio maiuscolo della terminale Allodola ottobrina cui tenersi aggrappati, nell’insaziato accertamento della sconfitta e nell’attesa.
Marco Marchi
Tabula rasa
D’accordo, amore. Espungiamo
dal testo perle d’acqua
su petali,
le frange estese,
le bolle schiuma.
Le cose lietamente necessarie.
Togliamo anche
l’acqua l’aria il pane.
Giunti all’osso buttiamo
fuori della vita
l’osso, l’anima,
per credere alla tua
tabula che mai
avrà l’icona, l’idolo, la cara calamita?
Bartolo Cattafi
(da L’osso, l’anima)
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