VEDI I VIDEO Booktrailer de “La regola dell’equilibrio” , Gianrico Carofiglio legge da “Con parole precise” , … e parla di “Sul bordo vertiginoso delle cose”, Piccola storia del Premio Letterario Castefiorentino
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Firenze, 31 maggio 2016 – Articolo pubblicato su “La Nazione” di oggi.
Riconoscimento a Gianrico Carofiglio, magistrato-scrittore
È Gianrico Carofiglio, l’autore di “La manomissione delle parole” e “Il silenzio dell’onda”, il vincitore del premio speciale alla carriera del “Castelfiorentino” 2016. Dopo avere stilato un invidiabile albo d’oro che annovera tra i suoi nomi quelli di Luzi, Sanguineti, Magris, Arbasino, Camilleri, Patrizia Valduga, Vecchioni e Magrelli, il Premio Letterario Castelfiorentino incorona adesso uno dei narratori di spicco del panorama odierno, di cui sono in libreria, recenti e recentissimi, il bel romanzo “La regola dell’equilibrio” (con il ritorno del mitico avvocato Guerrieri impegnato in uno sfibrante corpo a corpo tra verità e menzogna), un’articolata riflessione sul rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali dal titolo “Con parole precise. Breviario di scrittura civile” e i racconti di “Passeggeri notturni”.
Nato a Bari nel 1961, magistrato dal 1986, senatore dal 2008 al 2013, Carofiglio approda alla narrativa pubblicando nel 2002 da Sellerio il romanzo “Testimone inconsapevole” che diventa subito un successo, di pubblico e di critica. Salutato come uno dei migliori gialli legali usciti in Italia, il libro diventa così, assieme a “Ad occhi chiusi”, “Ragionevoli dubbi” e “Le perfezioni provvisorie”, il primo di quattro romanzi che ruotano intorno alla figura dell’avvocato Guido Guerrieri, affascinante personaggio còlto tra sfera pubblica e privata, malinconico ed autoironico eroe capace di coinvolgere e convincere.
Tra le ultime opere di Gianrico Carofiglio, autore tradotto in tutto il mondo, si ricordano inoltre il romanzo “La casa nel bosco”, scritto in collaborazione con il fratello Francesco, “Il bordo vertiginoso delle cose” e “Una mutevole verità”.
La premiazione sabato 4 giugno al Teatro del Popolo di Castelfiorentino.
Marco Marchi
Uno
Era forse il dieci di aprile. L’aria era fresca, tersa. Spirava una brezza profumata molto rara in città, il sole e la sua luce si spandevano liquidi su di noi e sulla facciata grigia del tribunale. Carmelo
Tancredi e io eravamo vicini all’ingresso, chiacchieravamo.
– A volte penso di smettere, – dissi appoggiandomi al muro. L’intonaco era scrostato e una ragnatela di piccole crepe si estendeva in modo preoccupante verso l’alto.
– Smettere cosa? – mi chiese Tancredi togliendosi di bocca il sigaro.
– Di fare l’avvocato.
– Scherzi? – disse lui, con un lieve, inconsapevole scat- to del mento.
Mi strinsi nelle spalle. In quel momento passarono due giudici. Non si accorsero di me e io fui contento di non doverli salutare.
– Li conosci? – dissi indicando con un cenno del capo la porta a vetri dietro la quale i magistrati erano scomparsi un attimo prima.
– Ciccolella e Longo? So chi sono, non direi che li conosco. Una volta sono andato a deporre in udienza davanti a Ciccolella, ma è stata una cosa rapida.
– Qualche giorno fa ero in ascensore proprio con lui. C’erano anche due praticanti e quell’avvocatessa sempre vestita come se dovesse andare a un veglione di capodanno cinese.
Tancredi ridacchiò. Aveva capito subito di chi stavo parlando.
– La Nardulli.
– La Nardulli, appunto. È strana ma è una persona per bene, mi fa quasi tenerezza. Difende gratis un sacco di disperati.
– Vero. Quando abbiamo bisogno di un difensore d’ufficio e non si trova nessuno lei è sempre disponibile, anche se non ci guadagna niente. E allora?
– L’ascensore arriva al piano terra e io mi scosto per farla passare; era l’unica donna lí dentro. Lei sta per uscire, traballando su quei tacchi assurdi, quando Ciccolella le passa davanti, la urta, quasi la fa cadere, poi la guarda per qualche istante ed esclama: avvocato! Con tono di rimprovero, come per dirle: avresti dovuto spostarti, non avresti nemmeno dovuto provare a passare prima di me. Io sono un giudice, nel caso non lo sapessi. Poi si gira e se ne va senza salutare nessuno.
– Simpatico.
– Lo ha fatto apposta, a urtarla. Io mi sono sentito una merda. Sarei dovuto intervenire, dirgli che non sono modi quelli, che era un villano. Ma naturalmente non l’ho fatto. Poi ci ho rimuginato su. In studio mi hanno visto parlare da solo almeno tre volte, quel giorno. Mi capita sempre piú spesso.
– Tanto i tuoi clienti lo sanno che sei pazzo. Cosa ne è venuto fuori da queste rimuginazioni? Si dice: rimugi- nazioni?
– Credo di no.
Arrivò una macchina della polizia, ne scesero due tipi dall’aria poco rassicurante, salutarono Tancredi, che rispose con un cenno, ed entrarono.
– Ho pensato che prima era diverso, – ripresi, – che questa maleducazione, questo livello di volgarità non c’erano, quando ho cominciato, piú di vent’anni fa. Mi è parso di ricordare che i rapporti nell’ambiente fossero meno bru- tali, meno… volgari, appunto. Poi mi sono interrotto, mi sono pizzicato e mi sono detto che stavo rimbambendo, che stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri.
– Rimpiangere il passato?
– Già. Rimpiangere il passato come se fosse l’età dell’oro. Uno rimpiange la propria giovinezza e magari quando ci stava in mezzo pensava che fosse uno schifo. Sai, l’incipit di quel romanzo di Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita».
– Conosco la frase, ma non ho letto il libro. Come hai detto che si chiama l’autore?
– Paul Nizan, uno scrittore francese.
Mi spostai un po’, scivolando contro il muro, in modo che il sole mi arrivasse in faccia. Cercai una posizione di appoggio, la piú comoda possibile, e socchiusi gli occhi.
– A volte penso a quando immaginavo quello che mi sarebbe accaduto nel futuro. Un viaggio, la laurea, il matrimonio, il mio primo processo in cassazione, un sacco di cose. Quei momenti, i
momenti in cui immaginavo il futuro, mi sembrano vicinissimi. Invece le cose che mi immaginavo e sono davvero accadute mi appaiono lontanissime. Il mio futuro è sprofondato nel passato.
– Ho sentito spiegazioni piú chiare.
– Ma hai capito, sí?
– Solo per la mia intelligenza fuori del comune.
Si spostò anche lui con la faccia al sole. Diede un paio di tiri con il sigaro.
– Come descriveresti l’odore del toscano? – gli chiesi.
– Non mi dire che ti dà fastidio. Sto riducendo sempre di piú la mia cerchia di amicizie per incompatibilità: la mia incompatibilità con la loro intolleranza verso il toscano.
– Non mi dà fastidio. Cioè, non molto.
Tancredi si portò una mano sul viso e la passò contropelo sulla corta barba che aveva da qualche mese.
– Gli esperti dicono che l’odore – anzi, loro dicono: l’aroma – del toscano è un misto di cuoio bagnato, di pepe, di vecchio barile di brandy, di legno stagionato. A furia di sentirlo ripetere mi sono convinto di percepirli anch’io, questi odori. A parte il vecchio barile di brandy, naturalmente. Non ne ho mai visto né annusato uno.
– Pepe, legno stagionato, barile di brandy, cuoio…
– Bagnato, cuoio bagnato.
– Cuoio bagnato… Divento matto per queste cose. Come le descrizioni dei sommelier. Mi sento sempre un cretino quando sono a tavola con qualcuno che dice cose del tipo: sensazione fruttata, sentore di cioccolato e liquerizia, tannini. Io bevo il vino, ma queste cose non le sento.
– Non hai mai fumato il toscano?
– Mai. Per parecchi anni, forse te lo ricordi, le sigarette. Poi niente. Mai sigari, mai pipa, grazie al cielo.
Si stava bene appoggiati a quel muro, con quel senso di pulizia dell’anima che solo certe giornate di primavera sono capaci di risvegliare. Pensai che sarebbe stato bello andare in qualche posto in campagna, stendere una coperta sul prato, leggere, mangiare dei panini, chiudere gli occhi e ascoltare i mormorii della natura.
– Hai voglia di sentire una storia?
Fece un gesto con la mano, come per dire: prego, ac- comodati.
– Un mese fa ho fatto delle analisi. Roba di routine, il mio medico dice che ogni due, tre anni è bene. Qualche giorno dopo il prelievo il medico mi chiama – avevo appena finito un’udienza, stavo giusto uscendo di qua – e mi dice che deve parlarmi. Aveva un tono troppo neutro. Non mi è piaciuto per niente. Gli ho chiesto se c’era qualche problema e lui mi ha risposto che era meglio se passavo da lui. Cosí l’ho raggiunto in studio, in una condizione di spirito non proprio serena.
– Cosa ti ha detto?
– È un amico, era molto a disagio. Mi ha detto che c’erano dei valori piuttosto alterati, ma che spesso ci sono dei falsi positivi in questo tipo di accertamenti, quindi bisognava ripeterli subito, prima di cominciare a preoccuparsi. Però se i valori fossero stati confermati era necessario prendere appuntamento con un ematologo. Gli ho chiesto se per piacere poteva essere un po’ piú chiaro, e mentre parlavo mi sono accorto che dovevo poggiare le mani sulla sua scrivania perché avevano preso a tremarmi forte.
– E lui? – chiese Tancredi con un filo di voce.
– Ha fatto ancora qualche giro di parole, poi ha detto che poteva essere una forma di leucemia. Ce ne sono di tanti tipi, ha detto, e molte si curano, oggi. Ma era inutile starne a parlare fino a quando non avessimo ripetuto le analisi.
Tancredi era immobile e pareva quasi aver smesso di respirare.
– Abbiamo rifatto i prelievi. Mi ha assicurato che avrebbe parlato con il laboratorio perché i risultati arrivassero in un giorno. La mattina dopo, verso le otto, mi ha chiamato. Non trovava la parola giusta e gli è venuto: complimenti. «Te l’avevo detto che ci sono spesso dei falsi positivi. In realtà non cosí spesso, ho un po’ esagerato, ma capita. Per fortuna è capitato stavolta. Vai a fare un brindisi per il tuo secondo compleanno, stasera». Ha aggiunto anche altre cose, ma la sua voce a quel punto era diventata lontana e non le ho sentite bene e in ogni caso non le ricordo. È stata una delle situazioni piú irreali della mia vita. Sentii il rumore dell’aria buttata fuori da Tancredi.
– Quindi è tutto a posto?
– Sí.
– Porco cazzo. Per un giorno hai pensato di avere la leucemia?
– Sí.
– Ne hai parlato con qualcuno?
– No.
– Perché non mi hai chiamato?
– Ci ho pensato, ma mi vergognavo.
– Ti vergognavi? Di chiamare un amico? Ma tu dallo psichiatra devi andare, non dall’ematologo. Che significa?
– Mi sentivo inferiore. All’improvviso ero finito dalla parte dove ci sono i malati, mentre i sani, quelli che continuano le loro vite normali, che mangiano, bevono, lavorano, viaggiano, fanno l’amore, fanno progetti, erano dall’altra, quella da cui ero appena stato escluso. Mi sentivo inferiore e mi vergognavo. So che può sembrare strano, ma è cosí.
Tancredi respirò a fondo. Strizzò gli occhi. Fece una smorfia rabbiosa scuotendo il capo, come per scacciare un pensiero.
– Non deve essere stato facile, – disse infine.
– Non lo so. Non riesco a definire il mio ricordo. È stato un giorno sospeso nel nulla. C’era la paura, prima di tutto. Erano come pulsazioni di paura. L’idea concreta che in breve, non in un futuro remoto e astratto, non esisterai piú. Il mondo non esisterà piú. Mi sono ricordato quello che disse un mio amico – Emilio – quando mi raccontò della malattia e della morte di sua moglie, aveva trentaquattro anni. Pensi alle passeggiate che non hai fatto, a quando ti sei comportato da ragioniere con la moneta degli affetti. Non è solo la paura della morte, è che vorresti non aver sprecato il tuo tempo. Poi c’erano momenti di quiete perfetta. Come se mi fossi già abituato, come se avessi accettato il mio destino e potessi osservarlo con distacco. Una cosa che riguardava qualcun altro. E c’erano momenti in cui pensavo che non mi sarei dovuto arrendere, che avrei dovuto lottare, sconfiggere la malattia, qualunque fosse. Ci erano riusciti in tanti. Questi sono stati i piú difficili, se capisci cosa intendo.
– Non pensavi a quello che ti aveva detto il medico, che potesse esserci un errore nelle analisi?
– Nemmeno un secondo. Me lo sono vietato. Credo mi sembrasse un pensiero vile, un modo per rinviare la presa d’atto di quello che mi stava succedendo. Non sono il tipo che vince alla lotteria, credo di essermi detto.
– E come hai passato la giornata?
– Questa è l’altra bizzarria. Ho lavorato, sono andato in palestra, sono andato a letto presto, mi sono anche addormentato quasi subito e non ricordo cosa ho sognato. Poi c’è stato il risveglio. Erano le quattro del mattino e ho spalancato gli occhi con un’angoscia che non avevo mai provato. Una coperta di metallo. Mi sono alzato, mi sono dovuto alzare perché sentivo il panico che arrivava. Sono uscito col buio, ho camminato per ore, ha fatto giorno e le strade hanno cominciato a popolarsi e alla fine è arrivata la telefonata del dottore.
– Devi essere impazzito di felicità.
– Questo è l’aspetto piú strano della faccenda. In effetti per qualche secondo, forse qualche minuto, mi sono sentito… felice? Sí, direi felice. Dopo però è subentrata una sensazione che non avrei mai immaginato.
Cercai di spiegargliela, ma non era facile. Mi ero sentito fragile. Avevo pensato che se non era successo in quell’oc- casione sarebbe potuto succedere tra qualche mese, tra qualche anno. Era subentrata una paura diversa da quella del giorno prima. Una era un dolore acuminato, l’altra una febbre flaccida. Tutte e due umilianti, in modo differente. Quando il medico mi aveva telefonato per dirmi che i primi esami erano sbagliati, avevo pensato che le lancette venivano riportate indietro, che la mia vita sarebbe ripresa uguale lí dove si era interrotta. Ma non era cosí. La mia vita era cambiata, e in modo irreversibile, dopo quelle ventiquattr’ore.
– Da allora, in queste settimane, mi sono fatto parecchie domande, e alcune riguardano il mio lavoro. Quanta voglia ho di continuare a farlo e fino a quando. Cose del genere.
Carmelo pareva sul punto di dire qualcosa, ma non trovò nulla di appropriato. Si riaccese il sigaro e soffiò verso l’alto l’ennesima nuvoletta densa e grigiastra. Decisi che era il momento di archiviare l’argomento delle mie analisi cliniche e dei miei dilemmi esistenziali.
– Perché sei venuto in tribunale, oggi?
– Ho appuntamento con un magistrato della procura, uno dei pochi con cui ho ancora voglia di lavorare. Tu?
– Dibattimento davanti alla prima sezione.
– Che tipo di processo?
– Un ragazzo accusato di violenza sessuale.
Mi guardò stupito. La ragione era chiara. Di norma non accetto incarichi di quel tipo. Non giudico nessuno, ma proprio non ho voglia di difendere personaggi che potrebbero aver commesso reati simili. Non mi sentirei a mio agio e non garantirei una difesa adeguata. Attenzione: un po’ di disagio è indispensabile per fare qualsiasi lavoro, come dire, eticamente sensibile. È una cosa buona. Ma l’eccesso di disagio – quello che avevo provato io l’unica volta che avevo difeso uno stupratore – non va bene. Meglio lasciar perdere. Tancredi sapeva che mi regolo in questo modo, perciò era perplesso.
– Il ragazzo è innocente.
– Dicono tutti cosí.
– Davvero. Vieni a seguire l’udienza, se non ci credi. Tancredi non rispose. Guardava un punto alle mie spalle.
– Sta arrivando la tua socia.
Mi voltai verso il cancello di ingresso del palazzo di giustizia e vidi Consuelo che si affrettava con la borsa di cuoio e la sua andatura elegantemente goffa.
– Buongiorno, ispettore, – disse Consuelo a Tancredi, con un sorriso che risaltava sulla carnagione scura.
– Avvocato Favia, – rispose Carmelo, accompagnando il saluto con un lieve inchino.
Consuelo Favia è una ragazza andina, nata in qualche remoto villaggio del Perú, ma è anche una ragazza italiana, figlia adottiva di un mio amico. Anni prima era venuta da me per imparare il mestiere e adesso era socia dello studio. Uno dei pochi penalisti da cui accetterei di farmi difendere.
– Capo, andiamo in udienza?
– Andiamo. Ciao, Carmelo.
Tancredi aspettò che Consuelo fosse entrata in tribunale e che non potesse sentirlo.
– Guido?
– Sí.
– La prossima volta che mi fai prendere uno spavento come questo, ti sparo.
Gianrico Carofiglio
(da La regola dell’equilibrio, Einaudi 2014)
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