"Non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale", la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall'impossibilità di notificare personalmente all'imputato gli atti di avvio del processo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza. Lo scrive la Consulta nelle motivazioni della sentenza sul processo Regeni, spiegando che questa impossibilità "si risolve nella creazione di un'immunità de facto", che offende tra l'altro i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.) e il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, "è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana", afferma la Corte in un altro passaggio della sentenza n. 192 (redattore Stefano Petitti), depositata oggi. Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come "il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità". La sentenza pronunciata il 27 settembre scorso ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall'art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell'imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell'imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Ultima oraConsulta, 'Niente immunità per reato tortura' nel caso Regeni