Mercoledì 24 Aprile 2024

"Vialli e Sinisa, un esempio per chi lotta"

Giacomo Sintini ha affrontato il linfoma: "Essere famosi non fa differenza di fronte alla malattia, ma aiutare gli altri è importante"

di Doriano Rabotti

"Il giorno in cui incontrai Gianluca Vialli per la prima volta, a Parma, ci guardammo negli occhi e ci dicemmo tanto, con lo sguardo. Diventammo amici. Poi agli Europei mi mandò quel messaggio, Siamo Campioni".

Giacomo Sintini, 44 anni, ex pallavolista campione d’Europa con l’Italia nel 2005, due scudetti con Macerata 2006 e Trento 2013, di Vialli era diventato amico. Perché anche ’Jack’ era passato attraverso la malattia.

Sintini, a lei che cosa capitò?

"Nel 2011 mi diagnosticarono un linfoma. Un tumore dei globuli bianchi. Per un anno mi concentrai solo su terapie e trapianto di midollo osseo. Fortunatamente ho avuto la possibilità di tornare a stare bene e a giocare, e poi vincere di nuovo".

Essere uno sportivo la aiutò, nella malattia?

"Sicuramente sì. Intanto ero un atleta in salute e ben allenato, e questo permise al mio fisico di affrontare cure pesanti con una certa frequenza e intensità".

E sul piano psicologico?

"L’altro versante è la formazione che lo sport mi ha dato, mi ha insegnato disciplina e pazienza, ad affidarmi a persone più esperte di me, a studiare l’avversario e non dargli vantaggi. E a giocare un pallone alla volta, le piccole azioni quotidiane".

Quanto ci si sente soli davanti a una diagnosi simile?

"Il ruolo delle persone che stanno vicine a chi soffre è fondamentale. Però è vero che alla fine la diagnosi è tua e sei tu che devi affrontarla. In quei momenti mi aiutò moltissimo la fede".

Essere famosi aiuta o pesa?

"Non fa tutta questa differenza se eri già abituato a raccontare di aver vinto una medaglia o di esserti fatto male a un ginocchio. Per me durante la malattia non è mai stato né un peso, né un vantaggio. La cosa fondamentale è il rispetto. Per riuscire a riceverlo devi sperare di essere circondato da persone intelligenti, e dall’altro lato è meglio essere molto chiari".

In che senso?

"Fornire le versioni ufficiali e tenere aggiornate le persone aiuta a non far nascere ipotesi su cose che non si conoscono. Io davo lo stato dell’arte del mio percorso terapeutico, questo teneva a freno le chiacchiere".

Armstrong, Acerbi, Mihajlovic, Vialli: rendere pubblica la malattia serve?

"È una cosa molto personale. A me è servito, far sapere che stavo combattendo la mia battaglia era anche un modo per dire: lasciatemi in pace, vi dirò io come stanno le cose. Dopo, informare è diventato un modo per restituire agli altri e ringraziare chi mi aveva aiutato. E poi condividere permette di esorcizzare un periodo difficile. Quando ti capita una cosa brutta, raccontandola le dai una forma, puoi capire l’insegnamento".

Per chi non va sui giornali, l’effetto è diverso...

"Perché chi non è noto lo racconta ai parenti o al bar, ma il bisogno di condividere è umano, ancora oggi quando incontro i ragazzi nelle scuole so che parlarne fa bene a me per primo".

Dover essere un esempio è una condanna?

"Non è che ti alzi la mattina e dici: oggi voglio essere un esempio. Lo capisci quando te lo dicono gli altri. Io ho sempre cercato di essere un bravo padre, una brava persona, di affrontare a testa alta la prova della malattia. Ho capito che aveva un effetto sugli altri solo quando erano loro a dirmelo. E se la cosa diventa virtuosa, insisti".

Parlò anche con Mihajlovic?

"Non nell’ultima fase. Prima mi ero messaggiato qualche volta con sua moglie, mi ero sentito invece con Armstrong che mi fece un regalo".

C’è chi non gradisce la ’retorica del guerriero’, perché tanti sconosciuti lottano in silenzio. Che cosa ne pensa?

"Ognuno deve trovare il suo modo di stare nella prova. Anche io a volte ho toni aggressivi magari in privato, Sinisa era così ed era anche il suo bello. In realtà non c’è ipocrisia nella metafora del guerriero. Conosco bambini che lottano contro la leucemia, genitori che li aiutano, anziani che vivono con dignità condizioni drammatiche: tutti sono guerrieri, non c’è niente di male. Se essere aggressivi aiuta, meglio. Purtroppo, non è una garanzia di successo".