Picchi, mezzo secolo senza il "mio capitano"

"Armandino" è rimasto nella leggenda non solo per il calcio: solo dopo la sua scomparsa sono venuti alla luce i tanti gesti di solidarietà

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Quando morì Gino Bartali, Narciso Parigi (cantante fiorentino e suo amico fraterno) commentò: "Se Bartali non è in paradiso, il paradiso non esiste". Una frase che si adatta bene a un altro “toscanaccio” dello sport, il livornese Armando Picchi, il capitano della Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera, scomparso a 36 anni non ancora compiuti a causa di un male incurabile. Partiamo dalla fine (che poi vera fine non è) non solo perché domani saranno 50 anni dalla morte di “Armandino” (come lo chiamano affettuosamente i livornesi), ma perché solo dopo la scomparsa di Picchi sono venuti fuori innumerevoli gesti di concreta generosità: donazioni a un orfanotrofio, sostegni per i familiari dei detenuti, soldi per costose operazioni all’estero di bambini bisognosi, aiuti a persone in difficoltà economiche. Non elementi secondari nel profilo del campione perché, come dice Massimo Moratti "è attraverso la persona che sono arrivati i successi, quella sua capacità di dirigere gli altri, di essere capo senza farlo e di essere punto di riferimento per tutti è stato per noi il segreto che ha permesso all’Inter di diventare così importante". Di certo con Picchi l’Inter degli anni Sessanta diventa più che importante, diventa “Grande”. Protagonista nel Livorno, dove gioca dal 1954 al 1959 come terzino, dopo un anno alla Spal Picchi approda a Milano nella stagione 1960-61. Herrera lo trasforma in libero e in questo ruolo diventa il leader e il capitano della squadra. Nella sua permanenza a Milano (lascerà nel 1967 per contrasti con Herrera) l’Inter vince tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe intercontinentali. "Era il trascinatore, in campo e fuori senza avere bisogno di essere duro _ ricorda Massimo Moratti _ Era lui con il suo atteggiamento a mettere gli altri nella condizione di dargli retta. Per l’Inter è stato il personaggio più importante in questo senso". Carattere spigoloso e profonda generosità, Picchi è benvoluto dai compagni e dal presidente Angelo Moratti. "Ci sentivamo protetti dalla sua presenza _ ricordava Tarcisio Burgnich, suo compagno di difesa, scomparso proprio alla vigilia del cinquantenario di Picchi - era un leader naturale. Noi eravamo tranquilli perché le colpe se le prendeva lui dietro". Dopo l’Inter va a Varese e nel 1968 sposa la bellissima Francesca Fusco, fotomodella di “Grazia“. E’ un amore travolgente e profondo dal quale nascono Leo e Gianmarco. Picchi resta legatissimo a Livorno dove torna ogni estate. Ci torna come allenatore (anche su sollecitazione del fratello maggiore Leo, con cui ha un rapporto strettissimo) salvando gli amaranto dalla retrocessione in C. Poi è la Juve a scommettere su di lui e le sue doti di tecnico emergono chiaramente, ma l’avanzare della malattia lo costringe a lasciare la panchina a metà stagione. Quindi, l’epilogo drammatico del 27 maggio 1971. Così, torniamo alla fine, che non è la fine perché l’umanità di Picchi continua a conquistare ed emozionare. E, visto che il paradiso esiste, da lassù Armandino sorride.