Martedì 16 Aprile 2024

Mancini e quell’Italia che ha preso coraggio

Visionario e audace il ct ha lanciato giovani ancora prima dei club: arrivando fino a Wembley. E oggi serve questa forza decisiva

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di Paolo Franci

L’illuminazione di Jorginho? Certo. I gol di Immobile? Hai voglia. I lampi di Mimmo Berardi? Sicuro. C’è un Paese intero che spera di rivedere i fuochi d’artificio con quell’azzurro accecante che ha tinto la scorsa estate. C’è un Paese intero che, però, si affida al suo ’Diez’. il Dieci. Forse l’unico vero grande fuoriclasse della nostra Nazionale: Roberto ’Mancio’ Mancini. Di sicuro, il più grande architetto della storia azzurra. No, non esageriamo nè stiamo mancando di rispetto a Bearzot, Lippi, Valcareggi o il leggendario Vittorio Pozzo. Per carità!

I predecessori del Mancio hanno vinto o sfiorato ciò per cui Mancini si batte in questi giorni. E per questo sono i più grandi. Qui però parliamo di architettura e ingegneria in funzione del ’materiale’ a disposizone. E’ indubbio come i quattro monumenti dell’epopea azzurra abbiano potuto attingere al meglio del meglio a livello mondiale per alzare la Coppa. Vero, c’erano Nazionali più forti della nostra nel 2006 o nel 1982, ma non si vince un Mondiale solo perchè si è più forti. O almeno non sempre. Però è un fatto che quelle due squadre fantastiche avessero giocatori fantastici, di livello assoluto e stabilmente protagonisti della scena mondiale. Inutile tirare fuori la lista di nomi, basta una ’googlata’ per ricordare chi fossero gli straordinari interpreti di quelle due nazionali. E anche chi l’ha sfiorato il Mondiale, come Valcareggi, aveva uomini che hanno fatto la storia azzurra: Riva, Rivera, Facchetti, Mazzola e via tutti gli altri. Leggende, più che calciatori.

Il Mancio no. Il Mancio ha puntato sul suo fiuto nell’individuare il talento. Sul coraggio e una scheggia di follia nell’immaginare di costruire una Nazionale su ragazzi sconosciuti al panorama internazionale. Un esempio su tutti: quella convocazione di Zaniolo quando ancora non s’era affacciato in Serie A. Fu, quella, l’architrave di una filosofia. Un modo per dire a tutti, ma proprio tutti i calciatori italiani, che se c’era arrivato uno che doveva ancora metter piede nel nostro campionato, potevano arrivarci tutti. E così è stato. Quell’azzardo, quel voler osare ha via via snodato convocazioni sorprendenti che viaggiavano di pari passa con un’Italia che prendeva forma all’ombra di un progetto tra il glamour e la prepotenza tattica. Cioè il Mancio la voleva bella nell’espressione di gioco, coraggiosa nell’occupare la metà campo altrui, tiranna nel recupero della palla e soffocante nella gestione del gioco. Una vera e propria Rivoluzione. Per la prima volta, si è ribaltato un concetto molto italiano nella sostanza e nella filosofia. E cioè che ’vecchio’ è meglio a prescindere da talento e prerogative, rispetto a ’giovane’.

Il Mancio no. Lui ha legato le due cose con il filo del rendimento, del talento, dell’exploit. Una specie di socialismo del pallone dove tutti, ma proprio tutti, sono o sono stati utili alla causa, vecchi o giovani che siano. E quindi, Quagliarella e Zaniolo, Chiellini e Bastoni, oppure Sirigu e Meret. Una Rivoluzione che ha lucidato i talenti di provincia al pari di quelli metropolitani, che ha ridato coraggio ai club nel puntare sui nostri ragazzi, a prescindere dalle convenienze di un calciomercato esageratamente esterofilo. Un magnifico visionario, Mancini. Uno che il Mondiale pensa di poterlo vincere, un passo alla volta, partendo da Palermo. Speriamo.