Mercoledì 24 Aprile 2024

Larissa, salto rischioso: "Mi allenerà papà"

La scelta di Iapichino per migliorare ancora. Da Agassi a Tamberi, tante storie di campioni preparati dai genitori: non sempre a lieto fine

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di Leo Turrini

Sterminata è la casistica. Sconfinata la letteratura. Parlo della relazione tra genitori e figli, quando al legame affettivo e naturale si somma il rapporto “professionale”, insomma sì, il padre che si trasforma nell’allenatore dell’erede. Sangue chiama sangue. A volte nel bene, talora nel male.

Fresco fresco è l’ultimo esempio. Ieri Larissa Iapichino, straordinaria promessa azzurra nel salto in lungo, ha preso congedo dal coach di sempre, il bravo Gianni Cecconi. "D’ora in poi – ha spiegato la ragazza, che ha appena superato l’esame di maturità a scuola e ora può concentrare tutte le energie verso le Olimpiadi di Tokyo – sarò guidata dal mio papà, Gianni Iapichino".

Auguri sinceri e tanti saluti al principio di contraddizione: il babbo di Larissa ha ricordato come "io e sua mamma, Fiona May, che è stata una fuoriclasse proprio nel lungo, avevamo giurato che mai avremmo allenato nostra figlia. Ma la ragazza ci ha sorpreso, ha tanto insistito...".

Appunto. Come nella famosa canzone di Antonello Venditti, certi amori fanno dei giri immensi e poi ritornano. In pedana, in palestra, sul campo.

E sia chiaro. Una ricetta unica e buona per tutte le famiglie non esiste. Il carissimo Cesare Maldini, da ct della Nazionale, al mondiale francese del 1998 aveva il figlio Paolo tra i pilastri della squadra. Quando alla vigilia delle partite doveva annunciare la formazione, snocciolava "Pagliuca, Cannavaro, Bergomi...". Poi faceva una pausa e con un filo di pudore aggiungeva: "...Paolino". E pareva avesse un groppo in gola.

"Un padre ama un figlio. Un allenatore lo fa per soldi. È una differenza enorme": l’ha detto una volta Mike Agassi, il papà despota di Andre, il mitico eroe del tennis. Il figlio arrivò a mettere nero su bianco l’odio per il genitore, che sin da quando stava in culla aveva appeso una pallina davanti agli occhi del neonato. Giusto per abituarlo alla carriera che lui, il genitore, da subito aveva scelto per lui. E che poi in effetti si realizzò.

Sono storie che si sovrappongono e si contrappongono nel mondo nello sport. Dicevo prima che un principio buono per tutti e per tutto non esiste viste le differenti traiettorie che queste storie hanno preso. Gimbo Tamberi non sarebbe il campione che è, nel salto in alto, se non continuasse a seguire le indicazioni del papà Marco, che fu azzurro nella stessa specialità sul finire del Novecento.

Mentre c’è chi sostiene, chissà se con cognizione di causa o meno, che a Filippo Tortu, il velocista che sogna di essere il primo italiano di sempre in una finale olimpica dei 100 metri, non stia giovando l’affidamento totale alle istruzioni del padre Salvino.

Intanto, buona fortuna a Larissa. E a papà Gianni.