"La vittoria del ’68 cambiò il nostro calcio"

Furio Valcareggi parla dell’Europeo vinto con il papà Ferruccio in panchina: "Fece un capolavoro, cambiò 5 giocatori tra le due finali"

Migration

di Angelo Giorgetti

Non una, ma due finali giocò l’Italia per vincere il campionato Europeo nel 1968 preparandosi all’arrampicata mondiale con il secondo posto in Messico: l’8 giugno a Roma finì 1-1 (gol di Domenghini) e due giorni dopo nella ripetizione segnarono Riva e Anastasi, 2-0, Jugoslavia strabattuta e a casa con la medaglia d’argento.

A quei tempi, se la finale si chiudeva in parità dopo i supplementari bisognava rigiocarla. A quei tempi il calcio era un’altra cosa. A quei tempi l’allenatore Valcareggi scese subito negli spogliatoi dopo la vittoria, per lasciare che i giocatori sollevassero la coppa da soli, perché in campo c’erano andati loro, mica lui. Quindi non c’è una foto con il Ct, solo una di straforo insieme a Facchetti, che probabilmente stava cercando di trattenerlo in campo. Ma niente: "Ragazzi, il merito è vostro"

E cinquantatré anni dopo l’ultima e unica vittoria azzurra agli Europei di calcio il racconto di Furio Valcareggi, figlio del Ct Ferruccio, è una specie di poesia: "Io ero con il gruppo e lo ricordo bene, furono giorni tesi perché una finale è una finale, figuriamoci due, ma i giocatori non cambiarono abitudini, ognuno si portò dietro i propri pregi e i propri vizi".

Vizi?

"Domenghini e Riva continuarono a fumare 40 Marlboro Rosse al giorno".

Non male come preparazione.

"Altri tempi. Ma poi che cosa volevi dire a Riva, che ti faceva vincere le partite? Vi racconto anche un altro aneddoto su Gigi".

Sentiamo.

"Dormiva pochissimo perché prendeva sonno tardi, non ricordo quale trauma aveva dovuto affrontare di notte quando era un bambino. Insomma si addormentava alle tre, alle quattro, o anche dopo. La mattina si svegliava sempre tardi e qualcuno protestava. In realtà uno più degli altri, Domenghini, sollevava sempre la questione: perché lui sì e noi no? Mio padre una volta chiarì il concetto in modo che tutti potessero sentire: lui è Riva, fa gol e noi vinciamo. Finirono le discussioni".

Davvero altri tempi.

"Anche a tavola era così: c’era più libertà, ognuno nei limiti ordinava quello che voleva, ricordo delle grandi bistecche, riso, e pochissima verdura. Se penso che oggi a Coverciano c’è un tavolo di sei metri che è pieno solo di verdure crude o lesse... A quei tempi c’era più libertà, il gruppo era ridotto a livello di numeri e c’era, come dire, meno dispersione. L’altra sera ho visto quante persone erano in panchina con l’Italia, praticamente un esercito...".

Torniamo alla due finali.

"Lo dico subito, mio padre fece un capolavoro".

Quale?

"Fra una partita e l’altra cambiò 5 giocatori, invece l’allenatore della Jugoslavia, Rajko Mitic, fece giocare gli stessi. Li schiantammo. Riva giocò al posto di Prati, Pierino era forte eh... Burnich poi aveva una testa straordinaria, capiva tutto al volo, un fenomeno anche da quel punto di vista. Quella vittoria all’Europeo fu doppiamente importante, cambiò anche il destino del nostro calcio".

In che senso?

"Autostima, consapevolezza, forza interiore. Quella sera cambiò la storia del nostro calcio perché nacque un gruppo praticamente invincibile, che conquistò l’argento ai Mondiali due anni dopo".

Tanta gloria in campo, tanto onore anche a livello economico?

"Ricordo che il premio fu di due milioni e mezzo, tanti soldi a quell’epoca, ci si poteva comprare una casa. Per il secondo posto ai mondiali il premio fu di tredici milioni e poi il Presidente Saragat ricevette tutto il gruppo al Quirinale".

Suo padre era sceso negli spogliatoi a Roma per non togliere spazio ai giocatori, ma lì fu costretto ad andare...

"Mio padre era fatto così, un taciturno introverso che aveva il dono della sensibilità. Mi rimproverava: tu parli troppo. E io rispondevo: tu parli troppo poco. Gli devo così tanto che per ripagare tutto il bene chi mi ha fatto, dovrei vivere tre vite".

I giocatori erano legatissimi a suo padre.

"Vi racconto questa: quando mio padre morì, siamo stati sommersi dall’affetto. Riva arrivò a Firenze a mezzogiorno, era partito all’alba da Cagliari. Ricordo che mi prese a braccetto, andammo insieme verso la bara e Gigi mi disse: ’Per questo grande uomo, stamani mi sono alzato presto’."