Mercoledì 24 Aprile 2024

La storia della serie A è finita all’estero

Dopo la cessione del Genoa, quasi tutti i club più antichi del nostro campionato sono controllati da investitori d’oltre confine

Le proprietà straniere in Italia

Le proprietà straniere in Italia

"Make money". Fare soldi. Che poi non c’è niente di male, intendiamoci. Però, se ci si chiede per quale motivo così tanti investitori stranieri si gettano sul nostro pallone - soprattutto americani - il motivo è solo il business. Va un po’ contromano Rocco Commisso che all’operazione Fiorentina ha in parte legato un aspetto d’altri tempi, e cioè riportare in Italia un pezzo del suo impero. Uno studio recente di Kpmg football benchmark inquadra una tendenza a dir poco sbalorditiva: nel 2020, l’anno segnato dalla tragedia del Covid-19 e dalle tragiche conseguenze economico-finanziarie, ci sono state 18 acquisizioni nel calcio professionistico europeo. E l’Italia è senza alcun dubbio la grande star di questo trend, considerando che circa il 25% di queste si sono concretizzate nel nostro Paese. Con una particolare attenzione per i club più antichi. Come dire: ci stiamo vendendo gli affreschi e la storia.

Indubbiamente, qui c’è il fascino della civilità millenaria. Diceva con tagliente ironia un antiquario della città d’arte di Cortona: "Vede, gli americani qui comprano e comprano e comprano perché il fascino dell’antichità è irresistibile. D’altra parte se vai da loro, una seggiola che considerano antiquariato qui da noi è buona per accendere il camino...". Poi c’è il mito del made in Italy e della ’casa del Papa’, del cibo e del popolo di santi, poeti, navigatori e bla, bla, bla. E certo comprare un club italiano che sa di antico e leggendario, è come acquistare una costosa madia del ’600, fatte le dovute proporzioni. Ma, soprattutto, il calcio italiano fa gola perché qui si possono fare grandi affari.

Prima del Covid, il pallone a livello europeo, secondo i dati dell’Uefa, era cresciuto di fatturato dai 13 miliardi del 2010, fino ai 21 del 2018, con un eloquente +66%. In pratica, ogni club europeo è cresciuto mediamente del 9%. Poi è arrivata la pandemia e tutto è cambiato. E così gli investitori ’alieni’ che hanno puntato il nostro pallone hanno fiutato l’affare. D’altra parte c’è stata la lievitazione del calcio in tv in termini di visibilitùà e ricavi ma, soprattutto, il football garantisce qui da noi una popolarità da star, moneta di scambio formidabile per aprire nuove vie di business in Europa. E non solo: cinesi, arabi e tycoon a stelle e strisce avevano soldi da investificare attraverso la ’diversification strategy’ e cioè la diversificazione dei portafogli così da garantire nuovi impulsi agli affari in Europa.

Post Covid, poi, l’Italia fa gola agli americani perchè il blasone è impareggiabile e rivaleggia solo con quello degli inglesi ma, rispetto a un club britannico, a causa di tutte le mediocrità che si porta dietro (stadi fatiscenti, merchandising carente ecc.) il nostro pallone, un club italiano costa meno, molto meno.

Dunque, il costo attira e le prospettive ingolosiscono, con margini di crescita che in altri Paesi top sono impensabili. Pensate a come James Pallotta, prima di mollare la Roma, abbia inseguito il progetto stadio. E poi, all’estero il nostro calcio a livello televisivo (i diritti) certo non tira come Premier e Liga. E, ancora, lo scenario cupo dal quale ancora non si esce: stadi chiusi per oltre un anno, revenues oltre il crollo, guerre tremende sul futuro del pallone, come nel caso della Superlega. Andrea Agnelli aveva lanciato l’allarme seguendo l’ultimo report Deloitte: entro fine 2021, le perdite dei club delle cinque grandi leghe supereranno i due miliardi di euro. E allora perché tutti ’sti americani che neanche in un film di Sordi? Il motivo è persino banale: i prezzi dei club si abbassano per la crisi bruciante e dunque si compra guardando all’ampio margine di crescita che arriverà una volta finita la crisi. O almeno così sperano i cacciatori di blasone che si aggirano attorno al nostro pallone.