Il mondo va veloce, i 100 metri che uniscono

Nella prova regina dell’atletica tre atlete hanno corso coperte da capo a piedi: l’immagine di una società che cambia ad alta velocità

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Dall’inviato Leo Turrini

TOKYO

Il rischio, lo ammetto subito, è di cadere nel già detto, di precipitare nel già raccontato. E però dovevo venire nella pancia dello stadio olimpico, sempre inquietante nel suo vuoto vagamente sinistro, con il tripode spostato nel centro cittadino, per comprendere come mai sia stato giusto tentare di farli disputare, questi malinconici Giochi di Tokyo.

È stato giusto per gli atleti. Ma non per le Superstar dello sport business come Djoko e Kevin Durant. È stato giusto per gli umili, per gli sconosciuti, per i poveri della Terra. Per i nomi che non saranno ricordati, appartenendo fatalmente all’esercito di quelli che non vinceranno mai, non saliranno mai sul podio. Eppure, questo proletariato del pianeta, questo Quarto Stato (ah, il quadro di Pellizza da Volpedo!) di piste e pedane, sì, queste figure in carne e ossa hanno aspettato, preparato e sognato Tokyo per lunghi anni.

Ieri mattina, il programma dell’atletica leggera non prevedeva solo il debutto di Gimbo Tamberi. C’erano anche le batterie dei 100 metri femminili.

Bisogna vederle, certe cose. Per cogliere il senso del messaggio universale che l’Olimpiade tenta ancora di trasmettere. E andrebbe evitato il birignao intellettualoide da salotto, tipico di chi ormai al posto della verità ha messo il pregiudizio.

C’era, al via dei 100 metri, Houleleye Ba. Ventinove anni. Proveniente dalla Mauritania, paese che ha mandato in Giappone giusto lei e un maschietto. Houleleye ha gareggiato coperta dai piedi alla testa, come prescrive la sua religione. Eliminata in 15”26. Posso dire che è stata la più brava?

C’era Yasmeen Aldabaggh, saudita. Ci ha messo tredici secondi e qualcosa. Pare abbia gentilmente rifiutato domande sulla situazione nel suo Paese. Ma forse fa più politica lei, praticando lo sport in Arabia, di tanti commentatori.

C’era Kima Yousufi e mi è venuto da tremare all’idea che forse la ragazza stava passando alla storia. Infatti viene dall’Afganistan, dove presto torneranno al potere i talebani. E a quel punto, che ne sarà di Kima e dei diritti di tutte le donne?

Io le ho viste, sì. Le ho viste rispettandole nella manifestazione di una diversità che è socio culturale. Ma credo di aver percepito anche quel filo di felicità che attraversa lo spirito di chi riesce a realizzare un sogno che in fondo è uguale dall’Asia all’Africa, dall’Europa all’America, fino a Down Under, laggiù in Oceania.

Il sogno che ci ostiniamo a chiamare Olimpiade.