"Il Milan ha un gioco europeo, l’Inter no"

L’ex ct fa le carte al campionato: "Inzaghi è bravo, ma fa un calcio all’italiana. La Juve senza Ronaldo? Conta il lavoro di squadra"

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di Gianmarco Marchini

Fusignano (RAVENNA)

Sull’uscio di Fusignano si legge: ‘città natale di Arcangelo Corelli’. Ma, con il dovuto rispetto per il maestro della musica barocca, per tutti quest’angolino di Romagna è la culla dov’è nato l’uomo che ha cambiato il calcio, in Italia e oltre i confini nazionali. Oltre le convinzioni di quell’epoca. ‘Oltre il sogno’, come il titolo della mostra dedicata ad Arrigo Sacchi, inaugurata ieri al museo civico ‘San Rocco’ (aperta fino al 7 novembre, ingresso gratuito). Tra il n.1 della Figc Gravina, il presidente della Regione Bonaccini e tanti ex del calcio, c’erano molti compaesani, amici storici, compagni di un viaggio di cui Arrigo non ha mai dimenticato l’inizio. Quando Alfredo Belletti, bibliotecario del paese e dirigente del Fusignano, chiese a un ventiseienne di prendere le redini della squadra. "Sei infortunato, non puoi giocare: allora allena tu - racconta Sacchi -. Persi tutte le partite di preparazione, ma non mi cacciarono: anche perché contribuivo economicamente alla causa". Com’è finita? Chiaro: Arrigo vinse il campionato. Era la Prima categoria, certo, ma quelle idee avevano un valore universale. Ci credette il Milan e fu ripagato con la Storia. In rispetto a quella storia, ieri, non è voluto mancare Adriano Galliani, amministratore delegato di quegli Invincibili. "Arrigo mi stregò con una frase: noi italiani abbiamo giocato all’attacco solo duemila anni fa con i romani, è ora di tornare a farlo".

Sacchi, un pensiero al Milan che torna in Champions.

"Ci sono squadre che giocano un calcio internazionale e altre che ne praticano uno nazionale. Il Milan sta esprimendo un gioco internazionale: è un collettivo, tutti giocano con passione, generosità, corrono e si sacrificano per i compagni. Finché lo faranno, miglioreranno. Perché uno per uno fa sempre uno, ma uno per undici fa undici".

Poi le rimproverano di essere stato un nemico delle stelle.

"Una bugia, non è vero che non volevo i fuoriclasse. Li volevo se giocavano per la squadra".

Quanto può incidere l’impegno europeo per Pioli?

"Gli costerà, è inevitabile. Tra l’altro è capitato anche in un girone duro. Però la Champions può portare soldi importanti al club e far crescere la squadra".

Cosa pensa di Messias?

"Guardo alla sua storia con interesse. Non ho mai avuto nessun pregiudizio sui giocatori: mi piacevano quelli generosi, entusiasti. Il mio Milan era grande perché tutti e undici partecipavano. In un derby con l’Inter (aprile 1988, ndr), Altobelli alla fine del primo tempo urlò all’arbitro: li conti perché saranno in quindici. Non eravamo in quindici noi, erano loro che giocavano in sei-sette. Questa era la differenza".

Se il calcio è uno sport di squadra, la Juventus ci ha guadagnato con l’addio di Ronaldo?

"No, perché se Cristiano gioca con la squadra, è un campione. Se, invece, non gioca con la squadra, a quel punto devi farti due conti: è più quello che ti dà o quello che ti toglie. Perché poi se quello che è il più bravo non corre, gli altri cosa fanno?"

E’ più sorpreso dalla grande partenza dell’Inter orfana di Conte e Lukaku o dall’avvio choc della Juve di Allegri?

"Inzaghi è un bravo tecnico, gli auguro tutto il meglio possibile, ma lui gioca ancora un calcio molto italiano: sono curioso di vederlo adesso in Champions. Onestamente sono più stupito dai bianconeri, ma c’è una ragione: hanno dominato per otto-nove anni, tutti hanno tirato fuori le energie fisiche e nervose. Le difficoltà sono quasi, non dico normali, ma giustificabili".

La cosa più importante in un giocatore?

"L’intelligenza, vale più dei piedi. Ho avuto terzini che come tecnica erano più forti di Maldini, ma la testa di Paolo ce l’avevano in pochissimi".

Come si spiega, invece, i mancati rinnovi di Donnarumma e Calhanoglu?

"Dispiace, specialmente per il portiere. Ho sempre detto che quando l’avidità prevale sulla professionalità, la carriera finisce a rischio. Il Milan aveva altri due calciatori che si chiamavano Kakà e Shevchenko: quando sono andati via, non hanno più ripetuto le gesta del passato".