Giovedì 18 Aprile 2024

Il Dna e i gol, Chiesa può andare oltre il papà

Enrico vinse la Coppa Uefa, ma Fede sceglie la Juve per batterlo. Maldini e Mazzola non avrebbero mai potuto cambiare club

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di Leo Turrini

In verità, non tutte le ciambelle vengono col buco. Per dire: Edinho, rampollo di Sua Maestà Pelé, ha fatto il portiere e pure abbastanza male, prima di finire nei guai causa droga. E tra gli eredi, numerosissimi!, di Maradona non risulta figurare l’ipotesi di un campione.

Dunque, qui si parla, l’avrete capito, di figli d’arte con il pallone tra i piedi. Me ne occupo alla luce dei commenti euforici dedicati alla prestazione di Federico Chiesa contro il Milan. Una notte, quella del bianconero, che il padre forse non mai aveva vissuto.

Intendiamoci, a scanso di equivoci. Chiesa senior, che di nome fa Enrico, è stato uno dei migliori attaccanti italiani sul finire del Novecento. L’ho conosciuto ed era proprio forte. Me lo ricordo con la maglia del Modena, in serie B: un signor giocatore, destinato a conoscere splendide stagioni, zeppe di gol, al servizio di Sampdoria, Parma e Fiorentina. Ecco, forse al genitore mancò la ribalta del grande club metropolitano e infatti scudetti zero, anche se alzare una Coppa Uefa con i crociati emiliani (laureandosi pure capocannoniere della manifestazione) è una impresa mica da poco. Però, appunto, Chiesa 1, nel frattempo diventato manager di Chiesa 2, voleva evitare il bis al figliolo: così si è adoperato perché finisse alla Juventus, dove la conquista del titolo nazionale è una abitudine. Approdo in bianconero fortissimamente voluto da Junior, con il consenso di Senior, a costo di irritare la tifoseria Viola: nell’ambiente tutti sapevano del trasferimento, era il segreto di Pulcinella.

Viceversa tutti sapevano, in un altro calcio, che Paolo Maldini non avrebbe mai lasciato il Milan. Non poteva, perché lì la suggestione dinastica indissolubilmente si legava ai colori rossoneri. Cesare, il genitore, aveva alzato a Wembley, nel 1963, la prima Coppa dei Campioni del Diavolo: era un difensore elegante ma un po’ statico, talvolta distratto. Per lui i cronisti dell’epoca coniarono il termine “maldinata”: stava ad indicare una propensione al metaforico scivolone.

Bravo, eh, per carità, il Maldini 1. Ma non quanto il Maldini 2, simbolo del Milan berlusconiano, eroe delle cinque Champions vinte, oggi dirigente artefice della rinascita del club (appena intaccata dalle prodezze del citato Chiesa 2). Il secondo Maldini, comunque, proprio l’altra sera ha assistito ad un record che ha dell’incredibile: nel finale contro la Vecchia Signora è entrato in campo Maldini 3, inteso come suo figlio Daniel. Ebbene: è stata la millesima partita del Milan in serie A con un Maldini sul terreno. Mille maldinate, stavolta in senso buono, su 2918 gare rossonere. Roba da leggenda.

Infine, per chiudere con una spruzzata di romanticismo. C’è una generazione di italiani che ha memoria di un bambino che entra in campo tenendo per mano il mitico padre. Il piccolo era Sandro Mazzola. Il babbo era Valentino, simbolo del Grande Torino, la squadra che nel dopoguerra restituì l’orgoglio a un popolo. Anche Sandro è stato un fuoriclasse, con la maglia dell’Inter. Quando Agnelli e Boniperti lo pregarono di passare alla Juve, l’affare salto’ “perché mia madre mi disse che mio padre, morto nello schianto di Superga, non avrebbe mai accettato, lui capitano del Toro, di sapermi bianconero”.

È la Storia che va e torna, amico lettore.