Venerdì 19 Aprile 2024

Da Boskov a Mou, se le parole fanno squadra

Cambiano il lessico, danno l’anima, creano mentalità: ecco perché certi allenatori entrano nella storia anche a prescindere dai risultati

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di Paolo Franci

Domatori di parole, illusionisti, artisti del paradosso e della provocazione. Un po’ attori di teatro, un po’ animali da spogliatoio e costretti a stare sempre un metro avanti al gruppo. Pensateci bene: gli allenatori devono rapportarsi ogni giorno con un 30 ragazzi di età diversa, provenienti da più continenti con cultura, usi, costumi e abitudini agli antipodi. E devono convincere tutti che quello che chiederanno sia la cosa giusta da fare. Dunque, anche un po’ piazzisti di se stessi, di schemi e ’daievai’. Devono sape usare le parole gli allenatori, chiaro. E talvolta sono talmente bravi da inventare uno stile che fa presa sulla squadra, aiuta nella caccia agli obiettivi e resta scolpito nella leggenda del pallone.

Prendiamo il neoromanista Josè Mourinho. La sua capacità di trasformare l’ego smisurato - un po’ come fa Ibra - in una piece teatrale permanente nella quale il pubblico pende dalle sue labbra in attesa di un nuovo exploit verbale. Ricordate lo spot del rasoio nel quale diceva semplicemente ’Gentleman’ e poco altro? Ecco, gli bastava la mimica e due tre parole per convincerti a comprare qualcosa. Pazzesco no? Mourinho è un grande contropiedista della parola. Usa l’avversario come spalla e giù rasoiate. Il rumore del nemico, zeru tituli, prostituzione intellettuale: lui è’ come Rambo, se non ha un nemico da combattere non funzionale a livello dialettico. Però certi suoi modi di dire sono ormai impermeabili al tempo che passa. E alla fine la gente - i tifosi avversari - lo ha talmente detestato che ha finito per amarlo. A chi non piace Mou, con il suo linguaggio costruito su mimica snob e finito disgusto?

Prima di lui, ne abbiamo visti di campioni del linguaggio che oggi, ai tempi dei social, sarebbero ’trend topic’ un giorno sì e l’altro pure. Nereo Rocco ad esempio e il suo friulano stretto tipo: "Mi te digo cossa far, ma dopo in campo te ghe va ti!" diventato slang del pallone di quegli anni. Prendiamo Nils Liedholm, campione di stile e ironia, con quella faccia a metà tra John Wayne e David Niven. Il Barone era il gran maestro del paradosso. Con quel suo italiano straordinariamente zoppo e straordinariamente elegante, usava l’arte del paragone eccessivo, come quando disse che l’ex Milan "Antonelli è il nuovo Cruijff" o che la sua Roma zeppa di campioni era "Falcao, Valigi e altri nove". Per non parlare dei paradossi: "Gli schemi sono belli in allenamento: senza avversari riescono tutti", oppure il famosissimo:"Si gioca meglio in dieci contro undici", un modo per caricare i giocatori che però continua a scalfire certezze e ovvietà sull’inferiorità numerica.

Altro teatrante della battuta e dell’assurdo fu Vujadin Boskov. ìVuka’ ancor oggi vive nelle gesta di imitatori che sui social parlano come lui e fanno battute come le sue senza congiunzioni e articolo nelle frasi. Una carrellata del Boskov originale? Eccola: "Rigore è quando arbitro fischia", "Grandi squadre fanno grandi giocatori", "Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0", "Un grande giocatore vede autostrade dove altri vedono sentieri" e il leggendario: "Se sciolgo mio cane in giardino lui gioca meglio di Perdomo". E Arrigo Sacchi? Basti solo ricordare la straordinaria imitazione di Crozza a ’Mai dire Gol’ (su youtube, ve la consigliamo), con la quale diventerà famoso piena di "umiltè, intensitè e straordinerio" che ha contrassegnato gli anni ’90 e contribuito a diffondere il linguaggio di ’Arrighe’, come diceva Crozza. E siamo arrivati al Trap, che ha offerto perle straordinarie con quella sua tendenza a slanciarsi nel forbito. E quando si arrabbiava, in stile sergente dei marines c oome nella famosa conferenza stampa al Bayern (ancora cliccatissima, oltre il milione di visualizzazioni!) in cui urlerà "Strunz" diverse volte riferendosi a un suo giocatore, era uno spettacolo di mimica e linguaggio.