Giovedì 18 Aprile 2024

Coronavirus, il calcio perde un miliardo. E la Juve taglia gli stipendi

Studio Figc sui danni all’indotto: ma cresce il fronte dello stop definitivo. Signora, che linea: accordo con la squadra, risparmiati 90 milioni

Cristiano Ronaldo e Leonardo Bonucci (Ansa)

Cristiano Ronaldo e Leonardo Bonucci (Ansa)

Roma, 29 marzo 2020 - C’è uno studio riservato sui danni da coronavirus commissionato dalla Figc ad OpenEconomics, consulente di Palazzo Chigi e advisor d’elite sulla sostenibilità finanziaria. Uno studio che esamina in profondità l’emergenza, perchè qui non si tratta soltanto di diritti tv e stipendi dei calciatori, ma c’è un intero mondo, anche di semplice pratica sportiva, che ha smesso di esistere all’improvviso.

E se anche ieri la priorità raccontata in un’intervista all’ Adnkronos dal numero uno della Figc Gabriele Gravina resta quella di "completare la stagione" - e questo è il riflesso del corretto dovere professionale - nel mondo del calcio e in particolare tra i club è in atto una riflessione profonda sulla questione ripartenza dei campionati. Ci si chiede, tra i presidenti e non solo, se tutto questo abbia un senso a fronte di bollettini giornalieri che contano centinaia di morti al giorno. Davanti a certi numeri, tutto, in qualsiasi settore calcio compreso, sembra essere stonato rispetto alla realtà.

E infatti ieri la Juve prima in classifica, è stata la prima anche nell’affaire stipendi, annunciando di aver trovato un accordo "per la riduzione dei compensi" della forbice marzo-giugno, che produrrà risparmi "per circa 90 milioni". Se poi si dovesse tornare a giocare si negozierà "in buona fede per le integrazioni dei compensi". Bell’esempio, ora vedremo gli altri club.

Nello studio riservato di Open Economics sulla stagione scorsa (2018/19), fondamentale per capire l’impatto complessivo del pallone e quindi del danno, si stima un "valore produzione di 5 miliardi di euro" che rappresenta il 12% del Pil del calcio mondiale. Il football professionistico produce 3,8 miliardi di euro (77%), il resto - e non è poco - arriva dalla pratica dilettantistica e giovanile. Il che vuol dire che ogni mese di stop dalla Serie A fino ai campi dei nostri figli e nipoti, finiscono in cenere e in media 500 milioni di euro.

E cioè, sempre in media e al mese, 130 milioni di diritti tv al 120 di sponsorizzazioni, 40 milioni di biglietteria e 110 di ricavi terzi. Dunque, se lo stop dovesse essere definitivo, il danno complessivo sarebbe di quasi un miliardo e mezzo, tutto compreso e considerando 10 mesi l’anno di attività e senza considerare l’enorme voragine Euro2020 e le coppe europee.

Il costo della produzione nella scorsa stagione è stato di di 5,2 miliardi con il 79% a carico di Serie A, B e C. Il peso costo del lavoro è pari al 50%: 2053 milioni: un euro su due nel calcio professionistico se ne va per gli stipendi. Ecco perchè la partita della sospensione emolumenti è vitale e decisiva e fa bene Gravina a spingere su questo tasto. Nello studio di OpenEconomics si sottolinea l’ampissimo specchio in cui si riflettono "i benefici economici indiretti: dai giornali, ai trasporti, al food and beverage, al turismo, fino all’advertising, i videogames, le scommesse sportive, l’impiantistica e l’abbigliamento".

La cifra complessiva dell’indotto collaterale, è difficile anche solo da immaginare, in un Paese dove 33 milioni di persone seguono il calcio generando emergico movimento economico-finanziario. Però si può ragionare sullo ‘Sroi’, l’impatto socio-economico del pallone. Nel 2017/18, a fronte di quasi 1,1 milioni di tesserati Figc, l’impatto è stato di 3 miliardi di euro tra economia (742 mln), salute (1,2 mld) e socialità (1,05 mld). Si contano poi, "4mila accordi di sponsorizzazioni" e 215 milioni di follower sui social. C’è poi un dato clamoroso che emerge dallo studio della Figc: "Nella classifica dei 50 programmi più seguiti della storia della tv compaiono ben 49 partite di calcio". E non sorprende neanche un po’.