Giovedì 25 Aprile 2024

"Con i cavalli non si smette mai di imparare"

Scott Brash ex campione olimpico e vincitore del Rolex Grand Slam: "Non c’è età per apprendere, capire e valorizzare il lavoro con loro"

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di Paolo Manili

Da Londra 2012 in cui vinse l’oro a squadre a Tokyo 2021: Scott Brash, 36 anni, scozzese di Peebles, si racconta a Piazza di Siena a 50 giorni dalle Olimpiadi.

Brash, lei è l’unico cavaliere al mondo ad aver vinto il Rolex Grand Slam. Come considera questa sua impresa?

"Essere stato l’unico ad averlo vinto ha un grande significato per me ancora oggi, sono molto orgoglioso anche di tutto il mio team. E’ stata come un sogno che si avvera, una sensazione fantastica. Mi piacerebbe rimanere l’unico a vincerlo, ma sarò il primo a congratularmi con chi saprà fare altrettanto".

Come ha vissuto il lockdown, fra cancellazioni di gare e incertezze del futuro?

"E’ stato difficile non sapere quello che sarebbe successo nè quando le cose sarebbero ripartite. Non si può prendere un cavallo all’improvviso per prepararlo a un grande evento: serve tempo per riprendere forza e condizione altetica. Allo stesso tempo senza gare è impossibile mantenere i cavalli nella migliore forma possibile. Sì, ci siamo fermati, sapendo che non sarebbe stato facile. Direi anche che il lockdown ci ha dato la possibilità di lavorare di più sui cavalli giovani, facendo ‘staccare’ un po’ quelli più esperti".

Parliamo dei suoi cavalli: uno dei più importanti è stato Sanctos…

"Aver montato un cavallo straordinario come Sanctos mi ha aiutato a essere migliore anche con gli altri soggetti che ho avuto poi. La chiave di lettura dei successi avuti con lui è stata la relazione forte instaurata con lui. E’ ciò che cerco di ottenere con tutti i miei cavalli grazie a tutto quello che ho imparato con Sanctos. Lui è stato un caso su un milione, d’accordo, ma sono molto felice dei cavalli che sto montando ora, davvero cavalli fantastici".

La Gran Bretagna ha avuto generazioni di cavalieri straordinari, cito David Broome, i fratelli Whitaker, e via dicendo: ritiene che la sua generazione sia alla loro altezza?

"Onestamente non ci ho mai pensato in questi termini, certamente se la gente dovesse anche solo accostarmi a nomi come quelli di Broome, dei fratelli Whitaker, Nick Skelton... beh, ne sarei estremamente onorato. Sarebbe un sogno se riuscissi a vincere quello che hanno vinto loro e ad avere una carriera lunga come la loro".

La vittoria in gara: cosa rappresenta per lei?

"La sensazione della vittoria, della vittoria di un GP come quello di Roma o uno del Rolex Grand Slam... Credo che nessuna somma di denaro potrà mai procurare una sensazione del genere. Credo che quel tipo di sensazione sia quello che ti fa venire voglia di provarla ancora, e ancora, sempre di più".

Come vive la tensione, la pressione prima e durante le gare?

"Io amo la pressione, sinceramente: mi fa montare meglio. La pressione mi aiuta a tirare fuori il meglio di me stesso. Questo vale anche anche per i cavalli. Mi ricordo Sanctos a Londra: il primo giorno l’atmosfera era incredibile, c’era una grande attesa e lui sentiva tutto questo, si era un po’ innervosito e intimidito. Ma poi più aumentava la pressione e più lui capiva di dover dare il meglio di sé... E succedeva proprio questo: lui faceva prestazioni magnifiche quando sentiva che l’atmosfera era di grande livello e di grande aspettativa. Ad Aquisgrana, per il GP Rolex del Grand Slam, lui ha capito l’importanza del momento ed è come se fosse diventato un cavallo più grande, più forte. Per me, credo che mi sia stato sempre naturale sostenere la pressione e la responsabilità. Anche quando ero piccolo, nelle gare pony venivo sempre messo ultimo a partire proprio perché tutti sapevano che ero in grado di tenere la pressione. Mi sento molto scozzese, sono orgoglioso delle mie radici".

Un campione del suo livello cosa deve migliorare ancora, se possibile?

"Non si deve mai smettere di migliorare e dunque di imparare. I cavalli insegnano tantissimo. Io amo immensamente lavorare i miei cavalli per capirli sempre di più e sempre meglio, quindi per imparare da loro: il mestiere di cavaliere è proprio questo. I cavalli nascono con un’attitudine più o meno grande, con più o meno qualità, sta a noi cavalieri cercare di capirli al meglio e far sì che ognuno di loro possa esprimere al massimo le sue qualità e la sua attiutudine".

I due più grandi eventi internazionali hanno cambiato in parte la formula. Cosa ne pensa?

"La finale a quattro (con reciproco scambio dei cavalli, ndr) dei campionati mondiali era una formula davvero unica, straordinaria. Mi piaceva da impazzire guardare i cavalieri finalisti su cavalli che non avevano mai montato prima, vedere come riuscivano a interpretarli in pochi minuti di campo prova: era uno spettacolo meraviglioso, anche per il pubblico. Detto ciò, capisco anche che i cavalli arrivati alla finale del Mondiale spesso per i rispettivi cavalieri fossero il cavallo della vita: e sotto la sella di un altro cavaliere che non lo conosce, in una gara di quel livello, può succedere un malinteso, un’incomprensione... Ciò può danneggiare la vita e la strada di quel cavallo. Oltre a questo, calcolando che alla finalissima si arrivava dopo una grande fatica fisica per i cavalli… Insomma uno spettacolo straordinario da vedere, ma dal punto di vista dei cavalli meglio averla eliminata. Certamente mi ricorderò sempre l’emozione della finale a quattro del Mondiale 1986 ho visto Nick Skelton montare il piccolo ma grande Jappeloup, il cavallo di Pierre Durand: uno spettacolo indimenticabile...

Tre binomi e non più quattro alle Olimpiadi ormai imminenti: lei che ne pensa?

"Non sono contrario, forse per il pubblico è più facile da capire e seguire. Però mi ricordo Simon Delestre nel 2012 a Londra: mentre galoppava verso l’ultimo ostacolo gli si ruppe una redine e non poté finire il percorso: se anche allora ci fossero stati solo tre cavalieri in squadra sarebbe andato tutto ko per la Francia".